Giovanni Pellielo, bastano il nome e il cognome a ricordare a tutti la caratura, umana e sportiva, del più grande interprete azzurro del tiro a volo, specialità “fossa olimpica”, che si racconta in questa intervista ai nostri microfoni.

Come si è appassionato alla specialità fossa olimpica?

Mia madre era tiratrice, ed insieme ai suoi dieci fratelli andava alle sagre di paese, dove c’era spesso, quasi sempre, un semplice tiro a segno, un po’ rudimentale. Io ho iniziato così, alle sagre di paese, andando con loro.

Quanto è importante il supporto del Gruppo Sportivo Fiamme Azzurre?

Fondamentale, arrivando da una famiglia modesta. I primi tempi lavoravo come segretario, presso la sede del tiro a volo di Trecate, in provincia di Novara e mi pagavo così le spese. Nel 1995 vinsi il campionato del mondo e quel successo mi permise di farmi notare. All’epoca però non esistevano ancora i Gruppi Sportivi come li conosciamo oggi, infatti sono entrato come agente, inquadrato al Ministero della Giustizia dopo la vittoria del concorso pubblico. Successivamente sono stato inserito nel Gruppo delle Fiamme Azzurre. Senza di loro non avrei potuto, soprattutto all’inizio, dedicarmi totalmente alla mia passione. Loro sono stati, e sono tuttora, fondamentali per la mia tranquillità sportiva.

Che cosa insegna la sconfitta ad un campione come lei che ha vinto tutto?

La sconfitta insegna che siamo uomini. Ci insegna l’umiltà, a camminare sempre con professionalità. La sconfitta ti porta a dimenticare il momento di gloria che magari avevi avuto in passato. Occorre ricordarsi che la vittoria è un momento di gloria, ma soprattutto è condivisione poiché è la vittoria di un team, della Federazione e dei nostri fornitori sportivi. Nel mio caso di Fiocchi per le munizioni e di Beretta per i fucili. La vittoria, in fondo, è un momento che dura lo spazio del termine e, quel successo, non è l’apogeo di tutto. Ritengo che la sfida sia l’unico obiettivo del vero atleta. Io vivo sempre con il desiderio e questo termine etimologicamente vorrebbe indicare una condizione di assenza di stelle. Il mondo guarda il cielo e ci critica, nel mio caso magari dice che sono vecchio, che non sono più competitivo e così via ma io, invece, guardo il cielo e desidero camminare, vivere senza guardare quello che dice il mondo bensì secondo le mie profonde convinzioni valoriali. In fondo, ci sono secondo me due categorie di atleti, quelli che soddisfano il bisogno della medaglia, della vittoria; e poi ci sono gli atleti che sentono dentro di loro una passione inestinguibile, un fuoco interiore per il proprio sport e che vivono il loro impegno sportivo in maniera quasi trascendente, certamente spirituale. Io mi sento di appartenere a questa seconda categoria. Non siamo tutti uguali, anche se li sembriamo.

Qual è il suo più bel ricordo olimpico?

Sicuramente la vittoria ad Atene, dove è nata l’Olimpiade. Quella vittoria mi rimarrà dentro per sempre. Avere la fortuna, come ho avuto io, di partecipare ad un Olimpiade in quel luogo è qualcosa di incredibile. Poi, una cosa che mi ha colpito molto: la medaglia di Atene è quella dimensionalmente più piccola di tutte quelle che ho vinto, non per questo meno significativa.

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Giovanni Pellielo, al centro, premiato dal Presidente del CONI Malagò e dal già segretario del CONI Roberto Fabbricini con il Diploma d’Onore per la vittoria ai Campionati Mondiali di Fossa Olimpica 2013 (foto: sito ufficiale CONI, www.coni.it)

Come si fa a mantenere la concentrazione durante una gara olimpica e come si allena la mente durante le sessioni di preparazione?

Ci sono tante tecniche psicologiche, aiutano ad avere un certo tipo di ripetitività del gesto tecnico, del ritmo e della cadenza. Io mi preparo nel silenzio della solitudine, il grande allenamento è non avere paura di ascoltarsi, anche perché oggi giorno al mondo c’è paura della solitudine, c’è chiasso. La gente, il mondo in generale, rumoreggia, parla, straparla, sentenzia, ma non ascolta. Io, come credente, ascolto il silenzio e lì riesco a percepire i grandi pensieri, le grandi intuizioni. C’è spesso un ostentato desiderio di parlare per non ascoltare. Ritengo che il senso di appartenenza all’eterno renda una persona orgogliosamente diversa, e questa vicinanza all’eterno mi ha sostenuto grandemente nei momenti in cui ho dovuto vivere delle profonde ingiustizie. Le persone mosse da valori soprasensibili risultano più coriacei agli assalti del mondo.

Cosa ha pensato allo shoot-off di Rio 2016 contro il croato Josip Glasnovic?

In quel momento pensavo a fare bene. Ho rotto più piattelli di tutti ma, per una regola dell’uomo, non ho vinto. Avevo fatto un punteggio di 122/125, poi 14 punti e poi ancora 13, esattamente come Glasnovic. Entrambi avevamo fatto ventisette punti e per vincere occorreva non sbagliare. Il primo a sbagliare avrebbe perso l’oro. E io ho sbagliato un piattello. La motivazione di questa scelta regolamentare risiedeva nel voler uniformare le qualificazioni del nostro sport alle altre discipline olimpiche. Peccato che poi la finale della fossa olimpica sia diversa rispetto a tutte le altre discipline che, invece, hanno il percorso uguale sia per la qualificazione che per la finale. Adesso il regolamento è cambiato nuovamente. Dopo i piattelli di qualificazione si riparte da zero, si fanno 25 piattelli ad un colpo, il sesto del gruppo esce, e così via uno alla volta, fino a quando non rimangono i primi due che si giocano la finale a 50 piattelli.

Quali sono i valori che le ha trasmesso questo sport e che cosa si sente lei di aver dato alla sua disciplina sportiva?

A livello valoriale le dico: resilienza, combattimento interiore, la ricerca della forza, il non mollare mai, il non abbattersi mai nelle sconfitte e il non esaltarsi smodatamente nella vittoria. Io al trap ho dato la cosa più preziosa che posseggo, me stesso, conseguendo grandissimi risultati.

Quanto è importante avere il materiale tecnico migliore per poter gareggiare in campi di gara diversi, sparsi in tutto il mondo, con condizioni climatiche avverse?

Il sostegno delle aziende è molto importante, nel mio caso la Fiocchi per le munizioni e la Beretta per l’attrezzo sportivo. Sono aziende che mi sono state vicine anche durante il periodo della pandemia, mi hanno sostenuto in un momento in cui non abbiamo potuto gareggiare per tanto tempo. Ho visto, da parte di queste aziende, una vicinanza famigliare.

Giovanni Pellielo sul podio olimpico con al collo la medaglia d’argento appena conquistata a Rio 2016, sua personale quarta medaglia a cinque cerchi (foto: sito ufficiale CONI, www.coni.it)

Come vede a livello giovanile il mondo del tiro a volo italiano?

Si tratta di un grande movimento, con grandi atleti che per fortuna seguono la tradizione della nostra disciplina. Il nostro è uno sport che quando hai trent’anni non sei finito, sei all’inizio. Abbiamo grandi talenti che però devono crescere e sacrificarsi.

Cosa le viene in mente se le dico Pechino, 10 agosto 2008?

Mi viene in mente la mia terza medaglia olimpica, in una giornata come questa in cui mi intervista, con una pioggia battente come oggi. Vede, alla fine tutto torna.

Come ha valutato il rischio dell’Italia di partecipare a Tokyo 2020 senza bandiera?

Onestamente mi occupo dell’aspetto sportivo e non sono mai entrato nelle dinamiche politiche. Sono legato alla mia passione, a ciò che so fare e a ciò che conosco. Io occupo sempre la mia casella, la mia caratteristica peculiare, d’altronde, è sempre stata quella di non andare oltre. Io mi limito a fare del mio ed è già difficile farlo. Preferisco parlare delle cose che conosco.

La stagione agonistica in corso le sta dando le giuste sensazioni in vista di Parigi 2024?

E’ ancora presto, io vivo a Vercelli e sappiamo quali sono ora le condizioni meteorologiche  in Piemonte. Le condizioni non sono buone attualmente, soprattutto per uno sport all’aperto come la fossa olimpica. Io adesso non sono al top ma non devo comunque esserlo ora. Le racconto un aneddoto: venti giorni prima dell’Olimpiade di Rio feci 106/125 punti nella preolimpica, un punteggio molto basso. Due settimane dopo feci benissimo e vinsi l’argento olimpico. Di certo non recrimino mai di non aver fatto qualcosa che potevo nella preparazione, faccio sempre quello che devo. Poi bisogna ricordarsi che non dipende tutto da noi, perché ci sono anche gli avversari, le più diverse condizioni metereologiche e anche il differente momento in cui un atleta, rispetto ad un altro nella stessa gara, va in pedana a sparare.

Quale successo ricorda con maggiore piacere e quali persone del suo ambiente sportivo, italiani o di altre nazionalità, le hanno lasciato un segno, un’eredità indelebile?

Ricordo con enorme piacere la vittoria del quarto campionato del mondo, a Lima nel 2013. Quando tornai a casa arrivò una delegazione corsicana che mi portò gli omaggi, i saluti di Michel Carrega, ex tiratore francese, originario della Corsica. Io e lui siamo gli unici ad aver vinto 4 campionati del mondo alla fossa olimpica. Lui è un tiratore di un grandissimo livello, che segue ancora le gare. Questo episodio mi fece un piacere immenso, soprattutto per quello che Carrega rappresenta per il nostro sport.

 

 

 

 

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