Il 2016 è stato un anno dai mille volti. Come sempre le Olimpiadi hanno regalato emozioni contrastanti, dividendo più o meno equamente gioie e delusioni. Sicuramente sono stati i Giochi Olimpici del doping e non tanto per i risultati, quanto per la bufera mediatica derivante dalle rivelazioni antecedenti e successivi alla manifestazione brasiliana. Ripercorriamo questa annata anche con le parole di due grandi firme del giornalismo sportivo: Federico Buffa di Sky Sport e Riccardo Crivelli della Gazzetta dello Sport.
Tutto nasce dalle rivelazioni sul doping russo prima delle competizioni a Rio: si scopre che a Mosca si utilizzano sostanze vietate, volte a migliorare le prestazioni degli atleti di varie discipline. È il caos. C’è chi invoca a gran voce l’esclusione in toto della Russia e chi, invece, auspica in una selezione più rigida. Giorno dopo giorno, il quadro si aggrava, con diversi particolari che lasciano pensare ad un vero e proprio programma dopante, con strumentazioni precise ed una connivenza dello stato. Buffa è durissimo nel suo commento su questa scioccante rivelazione: “Credo che il doping di stato sia vergognoso. È evidente che, se potessimo tornare indietro, la DDR vedrebbe revocate diverse medaglie. Quanti atleti della Germania Democratica si sono rovinati la vita per quello che gli è stato somministrato? Quanti giocatori di calcio italiani hanno iniziato ad ammettere l’assunzione di alcune sostanze, senza chiedere cosa fossero e senza comprendere cosa gli venisse fornito? Ai giorni nostri, è vero che un atleta risponde del doping, ma è altrettanto vero che può chiedere ai medici cosa gli viene somministrato, a causa di un miglioramento a livello culturale. Ha anche il dovere di proteggere i propri diritti. In passato gli atleti si facevano somministrare senza controllo tanti medicinali, che, credo, siano costati cari in molti casi”.
Alla fine, si opta per la soluzione più soft: saranno le varie federazioni sportive a stabilire se far partecipare o meno i russi. Tutto è a loro discrezione. Così emergono verdetti contrastanti: in alcuni casi, vengono ammessi sportivi con precedenti poco limpidi e lusinghieri, mentre in altre discipline si escludono atleti mai trovati positivi (come nel caso del ciclista Zakarin). Un ulteriore caos in un quadro già piuttosto complesso. Poi un altro caso colpisce l’Italia ed il mondo della marcia: Alex Schwazer risulta positivo ad un controllo antidoping. Tuttavia, ben presto la vicenda si fa piuttosto oscura e torbida. Il campione in analisi è datato 1 gennaio 2016, ma la notizia emerge solamente il 22 giugno. Si grida al complotto, anche perché la positività emerge dopo la vittoria alla 20km di marcia a Roma, stabilendo un tempo incredibile. Inizialmente, l’altoatesino viene sospeso e la sua partecipazione ai Giochi Olimpici resta in bilico. Alla fine, nel mezzo dell’evento sportivo, arriva la notizia della squalifica: otto anni per il marciatore che annuncia il ritiro immediato. Una notizia che lascia l’amaro in bocca a Buffa: “Mi dispiace. È difficile da giudicare. Mi dispiace per lui”.
Dopo le Olimpiadi, un nuovo ciclone si abbatte sullo sport. Alcuni haker, che hanno adottato il soprannome “Fancy Bear” riescono a violare gli archivi della WADA, rendendo pubblici diversi profili e dati di vari atleti. Emergono verità scioccanti: diversi campioni come la ginnasta Simone Biles, le tenniste Serena e Venus Williams, i ciclisti britannici Froome e Wiggins avrebbero utilizzato per un arco di tempo più o meno limitato alcune sostanze teoricamente proibite per un uso terapeutico, aggirando dunque il regolamento. Un colpo alla credibilità di tante discipline. Questo il parere di Crivelli: “Senz’altro l’assunzione di medicinali attraverso strumenti leciti come le prescrizioni mediche per varie malattie diventino poi un sistema per aggirare le regole. Anche ripensando al caso Sharapova, bisogna dire che è stata lei la prima ad autosospendersi, ma non è credibile quando afferma di aver preso il Meldonium per 10 anni per curarsi. Quando si assume una sostanza ogni giorno, per tutti quegli anni, non è più un uso terapeutico per un problema passeggero, ma qualcosa di sistematico. Ormai è diventato chiaro che le prescrizioni mediche sono un escamotage per aggirare i test”.
Federico Buffa concorda con il collega, allargando il quadro ai precedenti storici: “Ancora una volta si torna alle Olimpiadi del 1936: i tedeschi non hanno stabilito il loro primato di medaglie a caso. Probabilmente il primo caso di doping sono quei Giochi. All’epoca non veniva seguito in questo modo, non si esaminavano provette conservate per anni. Credo che, ancora una volta, le Olimpiadi del 1936 siano quelle che anticipano i tempi. Il doping è qualcosa di impressionante. Penso a tutti quelli che hanno perso non dopandosi. Mi piaceva sentire le radiocronache o le telecronache di Ben Johnson, quando vinse a Seul 1988. In quel momento si celebrava la vittoria dell’atleta più spontaneo contro quello più freddo e cyborg. Faceva piacere vedere colui che era guardato con freddezza avesse vinto. E poi si scopre che non erano vittorie sincere. È anche doloroso, secondo me, sapere che gli atleti sono dopati. Ci sono sport in cui è impossibile farne a meno, perché la fatica fisica è eccessiva. Ci sono casi di ingenuità, in cui si assume un farmaco senza conoscerne gli effetti. Ci sono casi, come quello di Maradona negli Stati Uniti, in cui non penso che l’allenatore non sapesse che ephedrina era il termine inglese per definire l’efedrina… Era un farmaco per farlo dimagrire e poi ad un controllo trovarono positivo l’argentino. Mi piace pensare che ogni tanto ci sia dell’ingenuità, tendo a smettere ogni volta di più perché il doping c’è. Però mi ricordo di uno spettacolo teatrale a Melbourne, dove c’era un protagonista, giocatore di football australiano, che si chiedeva: “Ma come? Ci portate in giro, ci caricate, ci dite che dobbiamo essere come bestie in campo e poi a comando dobbiamo smettere? Ci chiedete sempre un’ultraprestazione e poi come facciamo a sostenerlo continuamente?”. Esaminava la potenza bestiale in campo e le sue conseguenze nella vita quotidiana. Una gestione sfociata poi in uno stupro di massa. E poi c’è l’idea di doparsi per mantenere un certo livello di fronte a chi chiedeva di più. Lo rifiuti mentre lo dici, ma dall’altra parte lo ascolti. Ecco perché tanti atleti di vertice continuano a far uso di sostanze. Il problema è che nessuno può fermare questo fenomeno ed è evidente che la maggior parte degli atleti, nonostante i controlli capillari, faccia finta di nulla”.
Ed ora? Come si può rimediare a questa situazione? Come si può tentare di ridare credibilità allo sport anche alla luce delle nuove inchieste che stanno rivelando un’atletica sempre più malata (in barba a chi non credeva pienamente alle denunce portate da Alex Schwazer)? Crivelli prova a dire la sua: “Credo che la notizia negativa, al di là degli scandali e della loro gravità intrinseca, sia l’impotenza economica del CIO, e quindi anche della WADA, per combattere il doping. Sicuramente, fare antidoping costa molto e non rende. Rende molto di più produrre le sostanze incriminate anziché andarle a scovare. Se non ci sarà un ripensamento, come sta accadendo ultimamente, ossia mantenendo la WADA sotto il proprio mantello, ma spingendola a rendersi più autonoma dal punto di vista scientifico, tecnologico ed economico, si rischierà di avere un doping di serie A ed un doping di serie B, intervenendo solo su determinati atleti. È una via molto impervia e difficile da praticare. Il CIO se ne sta rendendo conto e sta capendo che la gestione della WADA è complicata perché costa parecchio, andando anche contro gli interessi nazionali. Dovrebbe coinvolgere maggiormente i governi nazionali e politici in questa lotta, anche se sappiamo che ci sono interessi particolari… è una battaglia molto difficile da combattere. Al momento non ci sono segnali positivi. Temo che si possa fare un passo indietro dando il ‘libera tutti’ al doping. Non saremmo più sicuri di nulla di fronte a prestazioni eccezionali”. Ed è ciò che ogni appassionato spera di non dover vedere.