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La ciclista paralimpica Jenny Narcisi in cerca della qualificazione a Rio

L’ostinata fatica vince ogni cosa. Lo affermava il poeta latino Virgilio nel primo libro delle Georgiche. La dedizione al lavoro, la determinazione e la sincerità con sé stessa e con gli altri sono cardini del modo di agire di Jenny Narcisi. Calabrese, classe 1988, è stata la grande rivelazione del movimento italiano paraolimpico in questi ultimi due anni, nei quali ha conquistato medaglie in Coppa del Mondo e Mondiali di ciclismo. Azzurri di Gloria ha avuto il piacere di intervistare Jenny, speranzosa della convocazione per partecipare alle sue prime Olimpiadi.

Buongiorno Jenny, come procede la stagione? Quali saranno i prossimi impegni del Suo calendario?

“Adesso abbiamo la coppa del mondo in Belgio. Poi c’è il ritiro con la Nazionale. Dopo si rientrerà a casa e si aspetterà l’uscita della lista ufficiale dei ragazzi che andranno a Rio. Quindi ci saranno ritiri. Giugno è un mese abbastanza libero. Non abbiamo nulla prima dei ritiri pre Olimpiadi”.

In Belgio quindi ci sarà l’ultimo vero test nell’ottica di avvicinamento ai Giochi Olimpici di Rio?

Ultimo appuntamento importante per trovarci e confrontarci, anche se il livello di forma di un’atleta in questo periodo tendenzialmente non è quello di settembre o di inizio stagione. Sicuramente se uno inizia con il piede giusto lo si vede dalle prime gare ma l’importante è arrivare in forma a settembre“.

Dunque per preparare al meglio l’avvicinamento ad un grande obiettivo serve un’accurata preparazione. Ci può raccontare che tipo di lavoro fa Lei?

C’è una programmazione con periodi di carico, in modo da permettere all’organismo di metabolizzare il lavoro svolto e rispondere con la supercompensazione, che non è altro che un periodo di picco di forma, dopo un adeguato periodo di riposo al termine di una fase di carico. Dietro c’è il lavoro dei preparatori atletici, che mettono sul calendario i micro cicli, i macro cicli e i meso cicli, dal micro allenamento che è quello giornaliero, settimanale, mensile, con settimane di carico e scarico, periodi di picco, di ricarica e di nuovo supercompensazione“.

Per quanto riguarda le convocazioni, si sa già qualcosa?

Probabilmente c’è già qualcuno di certo. Penso ad Alex Zanardi ad esempio e ai vari campioni delle discipline. Gli altri devono meritarselo“.

Com’è stato il Suo avvicinamento allo sport? Ha mai seguito le Olimpiadi negli anni precedenti?

Devo fare una premessa per poter rispondere alla domanda. Io nasco con una disabilità su una gamba, curata prima solo dal punto di vista medico e poi attraverso lo sport, in particolare il nuoto, per tre anni. Avevo un arto inferiore più piccolo dell’altro, con la caviglia bloccata, una paralisi muscolare dal ginocchio a scendere. Ho fatto interventi vari soprattutto a livello delle dita. Abbiamo cercato di ridurre blocco meccanico della caviglia con l’attività motoria, quindi movimenti passivi ed attivi in acqua. Dopo vari interventi, c’era sempre una fase di rieducazione motoria, in cui io ci mettevo in mezzo lo sport, finché, dopo il terzo intervento, ho deciso di provare ad andare in bici perché la pedalata poteva permettere alla caviglia di distendersi. Quindi ho scoperto il ciclismo più con la scusante terapeutica che di passione per lo sport. Il tutto è successo in età adolescenziale, a 12-13 anni, quando per una ragazza il fattore estetico conta. Io stavo sotto cure ortopediche, non potevo prendere scarpe particolarmente grandi con i lacci, prendevo due numeri differenti. Avevo vergogna perché si vedeva che una gamba era più piccola dell’altra. Poi fra ragazzi e ragazze c’erano le solite domande e sguardi sulla gamba. Quando andavo al mare nascondevo i piedi sotto la sabbia perché mi sentivo osservata. Era come se non mi accettavo. Mi sentivo osservata e volevo vivere così, nascosta al mondo. Il ciclismo all’inizio mi fece sentire un certo ribrezzo perché mi dovevo scoprire, mi dovevo mettere dei pantaloncini e stare insieme agli altri. Tutto ciò finché mi sono convinta che questo piede rimarrà com’è e mi accompagnerà così per tutta la vita e, se qualcuno mi chiede del perché abbia una gamba più piccola dell’altra, io rispondo che non c’è nulla di male. L’ho fatto, aiutata dal direttore tecnico della mia prima squadra di ciclismo. Io ero andata con loro usando il ciclismo più come forma di socializzazione al posto delle passeggiate con la mountain bike in campagna. C’era questa squadra in cui gareggiava mio cugino. Si allenavano su un circuito. Mia zia mi ha proposto di fare la tessera per entrare nella squadra e fare amicizia. Quindi quella fu l’occasione per sbloccarmi e per rendermi conto che non c’era nulla di sbagliato nel dire la verità, senza avere paura. Fu l’inizio di una nuova fase, in cui io ho iniziato veramente a vivere. Prima era stato un periodo buio. La bici mi ha sbloccato a livello psicofisico. Quindi le prime gare erano affrontate con un spirito di rivincita, capendo che anch’io potevo allenarmi come gli altri, indossare un dorsale, passare sotto lo striscione d’arrivo. Ecco, quelle sono state le mie prime emozioni. Poi lasciai casa, la Calabria, per andare a studiare a Perugia scienze motorie. Avevo capito che ormai lo sport avrebbe fatto parte della mia vita. Nel frattempo lavoricchiavo per mantenermi in piadinerie o ristoranti, pur di continuare ad evadere, avere indipendenza dall’ambiente calabrese nel quale mi sentivo un po’ oppressa. Il mio sogno era quello di andare in bici. Tuttavia vivendo in una città universitaria, in collegio ed in una camera piccola, ero senza bici. Quindi, quando tornavo a casa a Pasqua e a Natale, ne approfittavo per andare in bicicletta. Per me, voleva dire ripartire con entusiasmo nella mia vita. Sognavo di mettere un dorsale e quasi ringraziare la bici per quello che mi aveva fatto. Finiti gli studi, lavoravo con qualche associazione sportiva; ma, visto che si trattava solo di rimborsi spesa e mantenendomi da sola, non riuscivo a gestirmi, dovendo anche pagare l’affitto. Dovevo tornare a casa e sapevo che a me serviva un lavoro part time e tempo libero per allenarmi in totale libertà ed indipendenza. Sapevo che tornare a casa, in un ambiente di campagna, con la famiglia, non mi avrebbe permesso di farlo al 100%. Quindi decisi che mi sarebbe andato bene qualsiasi lavoro, purché fosse funzionale al mio ritorno in bici. Il mio attuale lavoro mi permette di praticare ciclismo. Tutto è iniziato l’anno scorso. Quando guardavo gli atleti paraolimpici nemmeno immaginavo di farne parte anch’io. Poi ho deciso di controllare i requisiti per partecipare a quelle competizioni. Ho scoperto di poterne far parte. Due anni fa feci la mia prima gara paraolimpica, mi classificarono ed ebbi modo di conoscere Mario Valentini, Ct della nazionale. Sembrava una cosa immensa. La nazionale sembrava così lontana da me. Lui mi fece capire che non era così difficile. Valentini mi disse che servivano volontà e sacrificio e che la nazionale era per tutti. Io mi segnai quei consigli e mi continuai a lavorare sodo, a testa bassa, non potevo fare miracoli nei miglioramenti di performance ma chi va piano, va sano e lontano. Così l’anno scorso alla prima Coppa del mondo a cui partecipavo, privatamente, per conto della mia società sportiva, che fino all’anno scorso era amatoriale, portai due medaglie, un bronzo a cronometro ed un argento in linea. Quindi, queste prestazioni mi fecero meritare la convocazione in nazionale, il ritiro a Rovere in provincia di L’Aquila, per 15 giorni, insieme agli altri ragazzi e la mia prima gara, il Mondiale in Svizzera. Lì ottenni un bronzo e questo mi aprì le porte per la convocazione a Rio“.

Quali sono state le Sue sensazioni quando è arrivata la prima convocazione?

Mi sono sentita premiata dalla vita in quel momento. Ero in albergo a Maniago dove c’era la Nazionale. Ero passata per un saluto. Valentini mi fece capire che, avendo conquistato due medaglie, meritavo la Nazionale. Non ci credevo e decisi di aspettare la convocazione. Iniziai a ragionarci su, a metabolizzare, finché non arrivò la prima richiesta di convocazione per il primo ritiro. Da lì si è aperta la strada. Poi le cose sono arrivate man mano, ritiro dopo ritiro: ci sono stati i mondiali, la pista. Scelte per cui serve una preparazione. Mi auguro che sia un punto d’inizio. Le Olimpiadi, se ci andrò, sarebbero un premio o un regalo della vita per non avere avuto paura, anche quando la verità è scomoda. Sarebbe la prova che la perseveranza ripaga. Ho lasciato la famiglia, ho fatto rinunce, ho fatto un lavoro che non era quello per cui avevo studiato. Doveva andare così il mio percorso“.

Se dovesse andare a Rio, affronterebbe le gare con grandi ambizioni o si godrebbe la convocazione come un’esperienza importante?

Certamente c’è uno stimolo molto competitivo ma mi rendo conto che, se ci andrò, avrò a che fare con ragazzi che corrono da anni. La mia strada è tutta in miglioramento e tutto quello che arriva è un di più. Sicuramente mi batterò per portare a casa il miglior risultato possibile ma, come ho detto anche prima, questo dev’essere solo l’inizio. Mi auguro di andare a Rio e che possa essere la prima Olimpiade, non l’unica. Magari tra quattro o otto anni potrò presentarmi ai Giochi con una preparazione quadriennale. Di questi tempi, 12 mesi fa, non mi sarei mai immaginata di fare la Coppa del mondo, con la divisa di una squadra amatoriale, portando anche delle medaglie; non avrei mai pensato di indossare la maglia azzurra, di salire sul podio ad un mondiale con il tricolore. Non pensavo di avere la possibilità di fare un’Olimpiade. Ancora non ci credo”.

Se ci fosse un ragazzo desideroso di avvicinarsi alla Sua disciplina, quali consigli gli darebbe?

Quando si ha una passione e la vive con il cuore, bisogna crederci e prendere tutto quello che arriva, perché io credo che ogni cosa va come deve andare. Se a me è toccato un periodo di pausa, è perché doveva andare in quel modo e forse in quegli anni ho maturato la passione per la bici, la voglia di tornarci. C’era la voglia di ringraziare Dio per quello che mi ha fatto, per aver dato una svolta nella mia vita e per avermi permesso di amarla”.

In altre interviste, Lei ha dichiarato di considerare la bici come un angelo custode. È così?

Anche. Gli angeli sono un’altra mia passione, insieme alla bici. Ho una collezione a casa. Sono credente e quindi c’è anche il fattore religioso. Con la bici mi sento protetta, è un po’ il ruolo che possiamo dare alle figure angeliche, che è quello di proteggerci. Ogni volta che sono in bici non penso che mi possa tradire. Se una giornata è stata negativa o sono scontenta, la bici è lì ad aspettarmi. Mi porta in un altro mondo. Tempo fa ho ammesso che il mio idolo era Marco Pantani: mi dava l’impressione di qualcosa di trascendente con la bicicletta. Ed è la stessa sensazione che provo ogni volta che ci salgo”.

Quanto hanno influito idoli come Pantani nel Suo avvicinamento a questo sport?

Tanto perché mi trasmettevano emozioni, determinazione, voglia di stare lì ad insistere e soffrire, perché ne vale la pena. Ogni volta che lo guardavo, in quegli anni in cui scoprivo il ciclismo, mi faceva sognare. Mai pensavo che anch’io avrei fatto quello. Io non sono mai stata professionista ma nel mio piccolo avevo quella voglia di vincere, di farcela e per me ogni volta significa avere la meglio sulla mia vita. Sono sempre stata legata alla mia immagine di bambina che se ne stava all’angolo, perché si vergognava. E tutte le volte che vado in bici, che salgo sul podio, che va bene un allenamento, io sono felice come una bambina. È una sorta di attaccamento al mio passato che in qualche modo rivivo, anche quando vado nelle scuole, vedendo i bambini emarginati. Lì sento il desiderio di smuovere qualcosa. Sento una vittoria nello sport soprattutto a livello umano”.

Ed ora? C’è qualche atleta che rappresenta un riferimento per Lei?

“In questo momento non ho un atleta particolare a cui mi ispiro, nonostante segua molti sport. Sono ormai nella mia strada, anche se mi porto sempre dietro il calendario di Marco Pantani.  Lui è rimasto il mio punto di riferimento. Ci sono senz’altro atleti moderni ma ormai il mio percorso”.

Lei si è inserita bene nel gruppo azzurro. Con chi si trova meglio? Qual è il segreto della squadra?

“Io sto bene con tutti, vuoi perché sono la nuova arrivata, vuoi perché mi sono trovata in un gruppo già formato. C’è un grande senso di appartenenza a quella maglia azzurra: quando corro io, sembra che corrano tutti. Succede la stessa cosa quando gareggiano gli altri. Quando qualcuno sale sul podio, è la vittoria di tutta la squadra. E per squadra non intendo solo gli atleti che ci gareggiano ma anche i preparatori, i meccanici. Tutto il team è fatto da componenti con ruoli diversi ma fondamentali”.

Che rapporto c’è tra i più esperti ed i giovani arrivati?

“Ci sono ragazzi che corrono da parecchio tempo e che hanno tanto da insegnare a livello tecnico di gestione delle gare. Però ci sono esperienze e storie molto forti che mi stanno dando tanto: ragazzi finiti su una sedia a rotelle ad esempio. Io ho una disabilità che nemmeno si vede adesso. Rendono piacevole passare del tempo con loro. Ogni volta che torno dai ritiri con la nazionale sento che mi mancano”.

Tempo fa ho intravisto una foto su Facebook con Alex Zanardi. Che persona è?

“Ho conosciuto anche lui in Nazionale. È una persona umile e disponibile. Magari chi non lo conosce potrebbe pensare che sia un tipo che si dà molte arie per il suo percorso ma non è assolutamente così. È gentile con tutti, sta bene con tutti. C’è da prendere esempio da lui”.

Un’ultima domanda: negli ultimi mesi, il film “The Program”, incentrato sul caso Armstrong, ed il libro di Danilo Di Luca hanno gettato ombre inquietanti sul movimento ciclistico internazionale. Una situazione che penalizza anche i giovani in crescita. Lei cosa ne pensa di questa spiacevole situazione?

“Io non ho avuto modo di discuterne insieme ai ragazzi ma per quanto mi riguarda, soprattutto adesso che sono in Nazionale e non faccio più uscite a livello amatoriale, un altro mondo dove se ne sentono e ne accadono tante, credo che, se uno è sicuro di quello che fa, può andare avanti a testa alta. Se qualcuno provasse a dirmi o ad insinuare qualcosa, io sarei  tranquilla perché non potrà mai uscire fuori niente. So cosa significa ottenere un grande risultato con le proprie forze. Vado a dormire con il mal di gambe ed essere pronto a salire di nuovo in bici il giorno dopo: è lì che si prende la consapevolezza di ciò che si fa, senza fare ricorso al doping. Credo che c’è chi corre pulito ed ho l’esempio di tante persone intorno a me. Questo mi rafforza. Non è giusto fare di ogni erba un fascio. Non so cosa fanno le mie avversarie, ciò che prendono e come si curano. Non so se i gap che ho con loro saranno colmabili ma io so con cosa arrivo a determinati risultati. Non ho la stessa certezza per loro ma mi auguro che corriamo tutte a pari condizione”.

Federico Mariani
Nato a Cremona il 31 maggio 1992, laureato in Lettere Moderne, presso l'Università di Pavia. Tra le mie passioni, ci sono sport e scrittura. Seguo in particolare ciclismo e pallavolo.

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