La grande vittoria dei calciatori azzurri. Con questo titolo il quotidiano torinese “La Stampa” aprì, il 17 agosto del 1936, la sua terza pagina. Una pagina interamente dedicata alla chiusura dei giochi olimpici di Berlino. Proprio nell’ultimo giorno di gare, si era disputata, infatti, la finale del torneo di calcio che aveva visto l’Italia imporsi sull’Austria per 2-1 dopo i tempi supplementari: tra i due gol di Annibale Frossi si era inserita la rete di Kainberger che aveva trascinato il match oltre i novanta minuti. Una vittoria importante, al punto che il “Corriere della Sera” ne riportò la cronaca addirittura in prima pagina.
Niente di speciale si direbbe oggi: quando c’è da dare risalto ad un evento sportivo, il calcio occupa il primo posto, è sempre così. All’epoca, però, le cose erano un po’ diverse. Nel 1935, infatti, la notizia della vittoria, da parte della Juventus, del suo quinto scudetto consecutivo venne collocata nelle pagine centrali de “La Gazzetta dello Sport”, mentre il ciclismo occupava quotidianamente le prime pagine della Rosea, dividendosele con il pugilato e le gare d’auto. Ma le cose stavano cambiando: Benito Mussolini aveva capito che il calcio poteva essere un ottimo strumento di propaganda e per questo motivo spinse affinché l’Italia organizzasse un grande campionato del mondo. Dopo la vittoria della squadra di Pozzo alla manifestazione iridata, il calcio cambiò: i giocatori iniziarono ad essere presenti nelle pubblicità e le prime pagine dei giornali si riempirono delle cronache che narravano le loro gesta. La conquista di una medaglia d’oro ai Giochi Olimpici, quindi, era un evento al quale il regime non poté che dare ampio risalto.
Così come Mussolini, anche Hitler volle sfruttare la grande ondata propagandistica portata dallo sport e organizzò non una, ma ben due olimpiadi nello stesso anno: quelle invernali (tenutesi a Garmisch in febbraio) e quelle estive di Berlino. Questa seconda manifestazione sarebbe entrata nella storia dello sport per diversi motivi: la valenza politica, la maestosità della cerimonia d’apertura, la staffetta tra i tedofori, le riprese di Leni Riefenstahl che vennero utilizzate per il film propagandistico Olympia e le imprese di Jesse Owens. Anche il successo della squadra di Pozzo, però, occupa uno spazio importante all’interno della storia di questa olimpiade.
I Giochi, che si svolsero tra l’1 e il 16 agosto, videro il ritorno proprio del calcio dopo che a Los Angeles, quattro anni prima, non era stato organizzato alcun torneo, poiché le nazionali europee avevano ritenuto eccessivamente costosa la trasferta oltreoceano. Il calcio, insomma, mancava dai giochi di Amsterdam e questo comportò l’introduzione di una nuova regola: tra il 1928 e il 1936, infatti, era stato creato il già citato campionato del mondo che era giunto alla sua seconda edizione e, per questo motivo, si decise che le nazionali presenti alle olimpiadi fossero composte da dilettanti.
Se dodici anni prima, il commissario unico Vittorio Pozzo ebbe l’opportunità di convocare calciatori affermati che condusse alla conquista della medaglia di bronzo, questo diventava, a partire da quel momento, non più possibile. Pozzo, quindi, fu costretto a scegliere ventidue giocatori che mai prima di allora avevano indossato la maglia della nazionale di calcio. Per farlo, assistette ai Giochi universitari di Bologna e selezionò ventidue studenti che portò in ritiro a Merano e che, una volta conclusa l’avventura olimpica, non avrebbero fatto strada nel calcio ad eccezione di pochi elementi.
All’inizio del torneo, la squadra italiana non era tra le favorite per la vittoria finale, le aspettative erano modeste e il primo incontro vinto di misura (1-0) sugli Stati Uniti grazie al gol di Frossi, non fece altro che alimentare i timori che gli studenti fossero in procinto di tornare sui loro libri. Ma fu a quel punto che Pozzo decise di passare alla linea dura e di lavorare sulla testa dei suoi calciatori, infondendo in loro la sua mentalità vincente. Le prove successive gli diedero ragione: ai quarti di finale il Giappone venne superato addirittura per 8-0, grazie ai quattro gol di Biagi, alla tripletta di Frossi e al gol di Cappelli. In semifinale la sfida fu più combattuta, perché gli Azzurri si ritrovarono di fronte la Norvegia che era stata capace di eliminare la Germania padrona di casa. La partita si concluse 2-1 per l’Italia, ma furono necessari i tempi supplementari per superare l’undici norvegese. A segnare il gol decisivo in quel match fu, ovviamente, Annibale Frossi che al 96° riuscì a battere il portiere avversario Henry Johansen dopo che alla rete di Negro al 15° aveva risposto Brustad nella ripresa. La vittoria contro l’Austria, cinque giorni dopo, regalò all’Italia la sua prima, e per ora unica, medaglia d’oro nel calcio e consegnò Pozzo alla storia del calcio del Bel Paese. Lo stesso commissario unico, parlando della vittoria a Berlino, avrebbe rivelato: “Per me, quella è stata la gioia intima più grande che io abbia attinta dalla mia lunga carriera sportiva. Di soddisfazioni del dovere compiuto con successo ne ho avuta qualcuna. Questa sta al sommo: partire dal nulla, e in due mesi di lavoro chiuso, duro, tenace, caparbio quasi – e pur pieno di sentimento – conquistare una Olimpiade”.
Insomma, l’avventura olimpica della nazionale di calcio italiana vide consacrato il talento di Annibale Frossi che vinse il titolo di capocannoniere del torneo con sette reti, si guadagnò un contratto con l’Ambrosiana-Inter (il nome assunto dall’Inter per volontà del regime fascista, ndr) ed entrò nel mito, anche grazie alla pesante montatura che indossava per correggere la forte miopia dalla quale era afflitto e che lo fissò nella memoria dei tifosi italiani, addirittura per molti anni dopo il ritiro. Sembra quindi che l’Olimpiade di Berlino abbia avuto, almeno in questa storia, un protagonista diverso dall’onnipresente Jesse Owens, l’atleta statunitense che fece incetta di medaglie e che viene ricordato ogni volta che si citano i giochi voluti da Adolf Hitler.
In realtà, anche in questa storia, il mitico velocista e lunghista a stelle e strisce svolse un ruolo determinante. Nei cinque giorni che separarono la semifinale dalla sfida contro l’Austria, Owens diede una grande mano agli Azzurri: “Abitava nel villaggio olimpico in un’altra casetta, a due passi da noi – avrebbe ricordato Pozzo – veniva a visitarci, dopo cena, con una chitarra e una fisarmonica. E suonava, e ballava la danza del ventre. Gli piaceva la nostra compagnia, perché diceva che gli italiani ridevano sempre, e così rumorosamente”. Se i giovani giocatori italiani furono in grado di reggere la pressione che li circondava in quegli ultimi cinque giorni di olimpiadi, lo dovettero soprattutto a Jesse Owens, alla sua fisarmonica e alla sua chitarra.