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Carlo Molfetta durante la finale olimpica di Londra col gabonese Obame: una finale da oro!

L’oro di Carlo Molfetta nel taekwondo +80kg, arrivato dopo un percorso entusiasmante e ricco d’emozioni, ha certamente rappresentato una delle più belle pagine dei Giochi  Olimpici di Londra del 2012 per i colori italiani, e chi ha assistito passo dopo passo alla finale che ha portato a quella prestigiosa medaglia, difficilmente riuscirà a togliersela dalla mente: d’altronde, come si può dimenticare una rimonta partita da un -5 ad un solo minuto dalla fine della gara più importante, e per di più contro un avversario roccioso come il gabonese Obame?

Non si può, e così l’oro di Carlo Molfetta è diventato storia, l’apice di quelle che i suoi sostenitori e colleghi hanno ribattezzato ”le Olimpiadi del Lupo”: Carlo non si è qualificato per Rio e non potrà difendere il suo titolo, dopo la sconfitta in semifinale (andavano ai Giochi solo i finalisti) nel decisivo torneo di Istanbul contro l’inglese Cho (in un’Olimpiade che non vedrà azzurri nel taekwondo), ma la redazione di Azzurri di Gloria ha intervistato ugualmente Molfetta (che è anche capitano della nazionale, oltre che vera punta di diamante) per parlare della sua esperienza olimpica e di quell’oro londinese. Di seguito le sue parole ai nostri microfoni.

Ciao Carlo, ovviamente non possiamo non partire dall’eliminazione di Istanbul e dalla mancata qualificazione ai Giochi di Rio: possiamo definire questo risultato come la più grande delusione della tua carriera? Non ti eri qualificato neanche per Pechino, ma in quell’occasione eri infortunato…

”Allora, per Pechino non avevo neanche tentato le qualificazioni perchè ero fermo e col crociato rotto, e comunque la mancata qualificazione di Istanbul non rientra affatto tra le mie delusioni più grandi: ho fatto tutto quello che dovevo fare per qualificarmi, non ho rimpianti o rimorsi ed ho preso il tutto con grande tranquillità. Purtroppo, quando ci si riduce all’ultima chance ed a fare le gare dentro o fuori, bisogna anche accettare il risultato finale e pensare che qualcosa possa andare storto. Tra l’altro, ho perso contro Cho, che è uno degli avversari più temibili ed uno dei degli assoluti favoriti per la gara di Rio”.

Quanto ti pesa non poter difendere il tuo titolo a Rio?

”Abbastanza, mi sarebbe piaciuto molto poter tentare di difendere il mio oro, però purtroppo, non avendo avuto un quadriennio costante per via di problemi vari e di alcuni infortuni, ed essendomi ridotto all’ultimo momento per questi motivi, sai che le cose possono andar bene oppure andar male, com’è successo”.

Sentivi di avere una forma vicina a quella di Londra?

”La mia forma non sembrava lontana da quella di Londra: stavo bene, ero in buone condizioni fisiche, anche se prima dei Giochi del 2012 non avevo avuto problemi fisici e qui venivo da un anno in cui avevo avuto un grave infortunio. Diciamo che è mancato più il quadriennio che il momento in sè, per la mia disciplina la preparazione nel quadriennio è fondamentale”.

In una vecchia intervista, avevi accennato al fatto che hai dovuto cambiare il tuo stile di combattimento per adattarti ad un taekwondo più ”moderno”: puoi spiegare a noi profani i cambiamenti che hai dovuto apportare, e su cosa hai dovuto lavorare?

”In pratica, io vengo dal ”vecchio” taekwondo, quello in cui c’erano gli arbitri a mettere il punto e non c’erano i sensori: per mettere il punto quindi dovevi tirare il classico calcio di forza, e la forza era fondamentale. Essendo poi arrivate le corazze elettroniche, questa componente è venuta di fatto a mancare: a Londra non si era sentito il cambiamento perchè la maggior parte degli atleti veniva dalla mia generazione e dunque erano atleti del ”vecchio” taekwondo che si stavano adattando a questa nuova soluzione, ovviamente dopo Londra la situazione è cambiata. I giovani che si sono affacciati al taekwondo internazionale erano ”nati ” con le corazze, quindi non usavano più la forza per mettere il punto, ma altri fattori: la scioltezza e l’elasticità della gamba, ma anche il semplice tocco della corazza nei modi più assurdi, andando così ad inficiare la tecnica del calcio. Per fare un paragone, è un po’ quello che è successo nella scherma col passaggio ai corpetti elettronici: si privilegia il combattimento ”di fioretto” alla potenza”.

Tra l’altro, tu avevi già dovuto cambiare il tuo stile a Londra, dopo il passaggio nella categoria +80kg : è stato più difficile quel cambiamento, oppure quello che hai affrontato recentemente?

”Decisamente questo cambio (il passaggio al cosiddetto taekwondo 2.0, ndr), perchè un conto è rivisitare il proprio taekwondo per un passaggio di categoria come avevo fatto in ottica-Londra, cercando magari di essere più mobile o più stabile per sorprendere l’avversario, un conto è stravolgere il proprio modo di combattere: devi lottare più con la gamba davanti e meno con quella posteriore, alzare di più le gambe… Sicuramente sono delle modifiche allo stile che costano maggior fatica”.

Abbiamo parlato di Londra, ed apriamo allora il capitolo legato al tuo oro olimpico, in quelle che sono state ribattezzate ”le Olimpiadi del Lupo” (il soprannome di Carlo, ndr): raccontaci quel momento magico e quella grande emozione.

”In quell’occasione è filato davvero tutto liscio, diciamo: ho avuto una preparazione ottimale sotto ogni punto di vista, un quadriennio che posso definire perfetto, e quel giorno ero in buono stato di forma. In ogni combattimento ho dato il 100%, ed in ogni incontro c’è stato un colpo che mi ha risolto la gara e mi ha tranquillizzato sul passaggio del turno, portandomi alla vittoria: ho affrontato la maggior parte dei favoriti per l’oro, ed anche questo carica molto”.

La finale contro Obame ti ha visto piazzare una fantastica rimonta, che tutti ricordiamo, ma cosa si prova a stare sotto di cinque punti ad un minuto dalla fine della gara per l’oro olimpico?

”Cinque punti non sono affatto pochi: nel conteggio del taekwondo, possono essere un calcio al viso più 2 punti, oppure due calci al viso. Diciamo che, quando non sei riuscito a dare neanche un calcio al viso al tuo avversario in due round e mezzo, ad un minuto dalla fine il tutto inizia a diventare molto difficoltoso: però sapevo quello che dovevo fare, sapevo che, facendo un punticino e facendogli prendere un’ammonizione, potevo andare a -3 in pochissimo tempo e l’ho fatto, e poi dal minuto fino a 19 secondi dalla fine, quando gli ho dato il calcio al viso da 3 punti, in quei 40 secondi io pensavo solo a come e quando colpirlo in testa. Ero molto robotizzato, diciamo che mi è scattato l’occhio del lupo (Carlo risponde così quando gli nominiamo il classico ”occhio della tigre”, ndr)”.

Sempre parlando di Olimpiadi, quali erano le tue sensazioni all’esordio ai Giochi, avvenuto ad Atene?

”Ad Atene ho vissuto un’Olimpiade particolare, perchè facevo la -68kg e la mia preoccupazione più grande era arrivare in peso, soffrivo tanto lo scendere fino ai 68 kg: mi sono goduto poco quei Giochi proprio per questo fatto, poi ovviamente una volta che arrivi al peso puoi soffermarti sul resto, sul combattimento e sull’atmosfera. A posteriori, ti assicuro che ricordo ben poco di Atene, mentre ricordo moltissimo Londra, anche perchè ero più maturo e non avevo il problema del peso”.

Restando sul peso, quanto è difficile lottare in una categoria aperta come la +80kg, con tutti i rischi legati alle differenze fisiche con gli avversari?

”Molto, è sicuramente un fatto molto complicato, anche perchè vai ad incontrare atleti che ti superano di 20-30 cm: tu mi hai citato Obame, ma il maliano della semifinale era ancora più enorme, e questo è indicativo di quanto sia particolare quella categoria di peso. Però la chiave per avere successo è non avere paura: nel momento in cui hai paura di quello che può succedere, o che l’avversario ti possa mettere ko, beh, allora puoi anche non presentarti sul quadrato”.

Tornando all’argomento-Olimpiade, cosa ti ricordi del Villaggio Olimpico e dell’atmosfera ad esso legata?

”L’atmosfera attorno ai Giochi è stupenda, si è tutti amici, non ci sono differenze tra gli sport ed è un ambiente molto amichevole: è bellissimo stare nel Villaggio, un’esperienza che auguro a chiunque. Ho avuto la fortuna di conoscere tramite un amico Lebron James, ho visto Bolt da pochi passi, prima della cerimonia d’apertura: posso dire di aver conosciuto qualche big dello sport, insomma”.

Generalizziamo ora sul taekwondo: perchè hai scelto questa disciplina, e quanto è stata importante nella tua vita?

”Posso dire che il taekwondo è sicuramente la mia vita, è tutto per me: ho iniziato a 5 anni perchè lo faceva mio padre ed io, da bravo bambino che non si vuole staccare dal papà, l’ho seguito in questa disciplina. Da giovane avevo provato tanti sport, però pian piano ho iniziato a non poter fare a meno del taekwondo, ed è diventato il mio sport”.

Quanto è gratificante, per chi ha iniziato a fare questo sport a 5 anni, diventare capitano della Nazionale e poter aiutare i giovani?

”Questo è molto gratificante, ed è una delle motivazioni che mi hanno spinto a non ritirarmi dopo Londra: dopo quei Giochi abbiamo avuto un grande ricambio generazionale, con dei ”ragazzini” che avevano bisogno di me come guida, per capire quanto è importante sacrificarsi e non mollare mai di fronte alle difficoltà (ad Istanbul avevamo infatti una Nazionale molto giovane, ndr)”.

A Rio non ci saranno italiani nel taekwondo: questo sarà più un danno o uno stimolo per il vostro movimento? Un movimento che aveva vissuto un boom mediatico dopo l’argento di Sarmiento a Pechino…

”Ci sono i pro ed i contro: da un lato c’è la voglia di riscossa dopo questo risultato, dall’altro invece il fatto che ora i media ci seguiranno molto meno, e sappiamo quanto siano stati importanti i media nella crescita di questo sport, che aveva avuto una grande spinta dalla medaglia di Mauro”.

Quale sarà il tuo futuro, dopo la non qualificazione a Rio: continuerai a gareggiare?

”Vediamo, vediamo: è prematuro fare ora questi discorsi: ho bisogno di pensare, di vedere su che cosa lavorare, e poi deciderò”.

Leggevo sul tuo sito del progetto #diventalupo, per trasmettere il tuo stile di vita (un ideale molto positivo e stimolante, se volete ancora più informazioni andate sul sito di Carlo) ai giovani: puoi spiegarci in breve questa tua idea?

”Mah guarda, #diventalupo rappresenta il cercare di non abbattersi mai davanti alle difficoltà, non mollare mai e lottare sempre di fronte alle circostanze che ci troviamo ad affrontare nella vita: è un po’ quello che è successo a me, che nel 2005 ho iniziato ad infortunarmi e sono stato quasi 3 anni al di fuori del quadrato per i continui problemi fisici, però non ho mollato, perchè credevo realmente in quello che facevo e volevo arrivare a conquistare una medaglia olimpica. E ce l’ho fatta, lottando più con la testa, che con la forza bruta: l’intento è quello di essere d’esempio per i giovani, dar loro una strada da seguire, e spero di farcela”.

Marco Corradi
31 anni, un tesserino da pubblicista e una laurea specialistica in Lettere Moderne. Il calcio è la mia malattia, gli altri sport una passione che ho deciso di coltivare diventando uno degli Azzurri di Gloria. Collaboro con AlaNews e l'Interista

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