p_20160407_132553.jpg

Un ricordo dell’esordio olimpico di Pechino, presente nella sede degli Arcieri Voghera

-VOGHERA, dai nostri inviati Marco Corradi, Simone Lo Giudice e Federico Sanzovo

Non è da tutti esordire in Nazionale a 19 anni ed ai Giochi Olimpici a 21, centrando anche l’argento a squadre: Mauro Nespoli è riuscito in quest’impresa a Pechino, e poi a Londra ha raggiunto l’apoteosi, con un oro conquistato insieme a Marco Galiazzo e Michele Frangilli che è rimasto nella storia e nei ricordi degli italiani per la rimonta concretizzata all’ultima freccia contro gli Stati Uniti. Nespoli sarà regolarmente presente anche a Rio, essendo diventato ormai un veterano della squadra azzurra di tiro con l’arco, e la redazione di Azzurri di Gloria l’ha intervistato a Voghera, presso il centro d’allenamento della Compagnia Arcieri DLF Voghera, nel quale si sta preparando alle prossime Olimpiadi. Ecco le sue parole ai nostri microfoni.

Ciao Mauro, partiamo con una domanda ”nostalgica”: qual è il tuo primo ricordo olimpico?

”Il mio primo ricordo olimpico, o almeno la prima cosa che mi viene in mente pensando alle Olimpiadi, è ovviamente la finale di Londra del 2012: siamo andati in vantaggio, poi gli americani hanno rimontato e tutto è rimasto in bilico fino all’ultima freccia ed al 10 di Michele Frangilli che è valsa l’oro ed una grandissima gioia che ha ripagato anni di sacrifici. Se però devo pensare al mio primo ricordo olimpico in assoluto o comunque un momento significativo, cito l’oro di Galiazzo ad Atene, che ha rappresentato la molla che mi ha spinto a continuare per poi fare dell’arco la mia vita ed il mio sport”.

Passando alle ”tue” Olimpiadi, hai esordito ai Giochi nell’edizione del 2008: quali sono state le tue sensazioni a Pechino? Una Pechino nella quale, purtroppo, hai sbagliato la freccia decisiva nella finale della gara a squadre (vinse la Corea, ndr)

”L’impatto con le Olimpiadi è un qualcosa di emozionante ed al tempo stesso psicologicamente devastante: avevo 21 anni, ero giovane (Mauro ha esordito in Nazionale nel 2006, ndr) e col senno di poi ho caricato quell’evento e quella gara di un quantitativo di aspettative decisamente grande ed eccessivo. Avevamo vinto gli Europei il mese prima, durante la simulazione di gara abbiamo eguagliato il record del mondo ed andavamo tutti con l’idea di fare una grande prestazione e vincere l’oro, e forse questo ha influito a livello psicologico”.

Che sensazioni ti ha dato l’idea di partire per fare un’Olimpiade? Che cosa hai pensato il giorno in cui stavi prendendo l’aereo per Pechino?

”La cosa sensazionale del fare un’Olimpiade, e che la differenzia dalle gare normali, è il numero di atleti che salgono sull’aereo con te in quel giorno: siamo abituati, come nazionale dell’arco, a viaggiare molto, però siamo sempre e solo noi, conosci tutti quelli che partono con te perchè sono i tuoi compagni di squadra, mentre quando vai a fare i Giochi ci sono scherma, pallavolo, tennis, calcio, tantissimi sport ed anche degli atleti che sono dei miti dello sport italiano e prenderanno l’aereo con te facendo parte tutti dello stesso meccanismo. Si condivide la gloria di quegli atleti che ti hanno preceduto anche in altre discipline, e siamo tutti sulla stessa barca per portare l’Italia in alto: sull’aereo per Pechino ho conosciuto atleti come Igor Cassina, Yuri Chechi, Antonio Rossi, loro erano dei campioni ed io ero solo un arciere. Per me erano dei miti che vedevo in televisione, mentre loro mi trattavano alla pari, ci davamo del tu ed ancora oggi abbiamo un buonissimo rapporto, quando ci troviamo è come se ci fossimo lasciati il giorno prima. Questo senso d’appartenenza ad una grande famiglia italiana, che poi quando arrivi al Villaggio viene sublimata, è il lascito ed il ricordo più grande della mia prima Olimpiade”.

Hai parlato del tuo primo Villaggio Olimpico: come hai vissuto l’atmosfera di questa bellissima realtà?

”Beh, tu arrivi lì e ti ritrovi in questo posto enorme, soprattutto a Pechino dove c’era un’organizzazione mostruosa anche nella mensa, che era concepita in modo tale che tutti gli atleti potessero andare contemporaneamente a mangiare senza il minimo problema di spazio e senza distinzioni. Nel Villaggio tutti sono uguali, ed è un punto di aggregazione ed un momento importante: mi è capitato di mangiare allo stesso tavolo con Kobe Bryant, e parlare in generale di com’era andata la mia gara, delle loro prospettive per i Giochi e di sentirmi fare da lui i complimenti per la medaglia a squadre. Sono momenti speciali, delle grandi soddisfazioni”.

Quali sono state le differenze tra Pechino e Londra a livello di atmosfera? Quale Olimpiade ti ha lasciato di più, tralasciando un secondo quella medaglia d’oro?

”Sicuramente l’Olimpiade di Pechino è stata qualcosa di grandioso e stupefacente: l’idea cinese è stata quella di creare un villaggio e degli stadi di dimensioni gigantesche. Fa già pensare la scelta della location per il Villaggio Olimpico, che già è grande di suo e lì invece era circondato dai campi, con svariate zone per allenarsi: i cinesi hanno cercato di stupire ed ammutolire tutti con la loro maestosità, mentre quella di Londra è stata certamente un’edizione più a misura d’uomo. Dei Giochi strutturati e ben organizzati, però con degli spazi più contenuti e funzionali, per costruire degli edifici e delle strutture che poi potessero essere riutilizzate e non lasciate lì ad ammuffire”.

Tornando a Pechino, come hai vissuto i giorni precedenti alla gara in cui hai conquistato l’argento a squadre? Qual è il vostro avvicinamento-tipo all’esordio olimpico?

”Prima della gara ci si allena, ovviamente il numero di frecce è minore perchè non c’è più la necessità di creare il classico ”fondo” e fare una preparazione a lungo termine, ma aumenta l’intensità: ogni freccia va tirata puntando al 10 e cercando la massima precisione, si fanno simulazioni a squadre ed individuali, e continua una decisa preparazione fisica, perchè nel giorno della gara tutto dovrà essere perfetto e portato all’estremo, per raccogliere i frutti di 4 anni di lavoro. In quel giorno dai tutto per ottenere il massimo possibile, e poi può andar bene o male, e si fanno le classiche analisi post-gara in ottica futura”.

Quanto è difficile il post-Olimpiade? Quel momento in cui ti devi rimettere in gioco in delle competizioni che sono certamente di minor lignaggio…

”Sicuramente l’Olimpiade scarica le pile, anzi, le esaurisce e riprendere è difficilissimo: se rientri dai Giochi ed hai ancora energie da spendere, vuol dire che ti sei tenuto qualcosa e non andava fatto. Dopo un’Olimpiade sei stanchissimo e quindi hai bisogno di recuperare e staccare la batteria, per poi riprendere con delle nuove energie in vista del quadriennio successivo e dei nuovi obiettivi da raggiungere. Ogni gara è una cosa a sè stante, ci sono varie stagioni di avvicinamento alle Olimpiadi, ma certamente aver affrontato i Giochi alleggerisce molto le competizioni successive: per caduta, il campionato europeo, l’italiano e le gare di calendario nazionale e regionale vengono affrontate con una tensione minore. Nell’arco poi, noi stessi siamo il nostro primo avversario, ed a quel punto la gara viene fatta per raggiungere dei risultati in termine di punteggio sempre maggiori, dandosi un obiettivo e e centrandolo per tornare pronto alla successiva gara internazionale. Purtroppo il livello italiano non è quello che si può riscontrare in Corea, e dunque sarebbe una menzogna dire che una gara nazionale è come un’Olimpiade, mentre da loro ogni gara è mostruosa, con delle prestazioni molto simili alle competizioni internazionali: il primo traguardo italiano dovrebbe essere quello di alzare il livello, e tentare di arrivare a pari con la Corea ed i paesi dominanti in tal senso”.

Se tu dovessi sintetizzare per noi i quattro anni che ti hanno portato da un’Olimpiade all’altra, che cosa pensi di aver acquisito in questo periodo? Hai un ricordo particolare di questo quadriennio?

”Sicuramente rispetto a quattro anni fa, ed anche a 8 anni fa ed alla mia prima Olimpiade, è cresciuta molto la consapevolezza di quello che era il mio livello e delle cose che potevo fare: dopo Londra sono cambiate molto anche le dinamiche di allenamento per andare a rosicchiare qualcosa agli avversari. Sono più forte ed ho cercato di lavorare molto anche dal punto di vista individuale, per cercare di colmare il gap rispetto alla gara a squadre: nella competizione a squadre vado sempre molto bene, o almeno ci provo, mentre nella gara individuale mi è sempre mancato qualcosa, pur essendo migliorato nel risultato tra Pechino e Londra. Dopo i Giochi del 2012 ho lavorato molto per poter arrivare pronto anche alla gara singolare di Rio”.

Ci racconti quella giornata da oro di Londra, che vi ha ripagato della mezza delusione di Pechino, e questa finale pulp, con la vittoria all’ultima freccia e quel 10 di Frangilli che ha emozionato l’Italia intera?

”Guarda, quella mattina noi ci siamo alzati con la consapevolezza di non aver nulla da perdere: la qualificazione era andata mediamente bene, eravamo sesti ed abbastanza lontani dalla zona-medaglia, ma al tempo stesso sapevamo che l’adrenalina e la competizione degli scontri diretti non è la stessa di una gara di qualificazione. Volevamo fare bene, i primi scontri sono andati per il verso giusto e siamo rimasti concentrati, poi di gara in gara aumentava la fame di successo: abbiamo iniziato a non accontentarci più, a voler fare sempre qualcosina meglio, ed ogni scontro lo chiudevamo pensando ad affrontare quello dopo e passare un altro turno. In semifinale non siamo stati molto precisi, abbiamo avuto qualche difficoltà contro il Messico e siamo stati in svantaggio quasi per tutto lo scontro: la tensione lì ha giocato un brutto scherzo più a loro che a noi, perchè noi abbiamo tenuto il livello consueto e loro invece hanno sbagliato nei tiri finali e si sono giocati la finale. A quel punto, gareggiando prima di Corea-USA, abbiamo visto l’altra semifinale e la vittoria americana nella waiting room, e mi ricordo di aver parlato con Michele (Frangilli, ndr) nell’attesa pensando al fatto che, se fossimo dovuti rientrare subito in gara, non saremmo mai stati in grado di gareggiare perchè c’era stato un fortissimo scarico di adrenalina. Però, una volta che abbiamo visto la vittoria degli Stati Uniti, è tornata alta la convinzione, e con lei l’idea di giocarsela fino in fondo, come poi è successo: siamo partiti molto bene, loro hanno avuto qualche difficoltà in più su un campo insidioso, nel quale il vento dava molto fastidio. Abbiamo centrato subito il giallo, mentre loro all’inizio hanno avuto difficoltà, per poi recuperare freccia dopo freccia e colmare il gap, fino ad arrivare all’ultima freccia di Michele che ci ha dato l’oro”.

Che sensazioni avete avuto, appena prima che partisse quella freccia?

”Come ci siamo detti più volte in squadra, in quel momento io ho sempre visto Michele molto carico: il mio compito era quello di accompagnare la sua azione e contargli i secondi che avevamo ancora a disposizione per tirare, però l’ho visto molto carico e non traspariva il minimo dubbio sul fatto che potesse tirare bene. Quando poi ha rilasciato la freccia, da come ha tirato si è subito capito che avrebbe centrato il 10, ne ero certo, perchè ha tirato una freccia da manuale, e noi sappiamo come tiriamo. Quando lo speaker ha annunciato il 10 e la vittoria, poi, è scoppiata la gioia, abbiamo iniziato ad urlare e saltare, perchè Michele lo aspettava da tanto, ed io ho avuto l’occasione di rivincita per quell’errore di Pechino. Si è chiuso un cerchio, una sfida che era iniziata a Pechino dove avevo mancato di poco il massimo punteggio: alla fine, dalla televisione sembra tutto grande ed enorme, ma la differenza tra il 10 ed il 7 è qualcosa come 20cm a 70m di distanza, e non era un errore così eclatante. In tv è tutto più grande ed ingigantito, noi stessi sembriamo grassi, ma in realtà siamo magri ed allenati (ride, ndr)”.

Quelli, tra l’altro, erano anche i primi giorni dell’Olimpiade, quindi avete permesso all’Italia di partire col botto e vi siete guadagnati una grande risonanza mediatica…

”La gara del tiro con l’arco inizia e si conclude con l’inizio e la fine dei Giochi, questo ormai è un programma standard da qualche Olimpiade: facciamo la gara di qualificazione della prova a squadre con l’inizio della rassegna a cinque cerchi e la cerimonia di apertura ed il giorno seguente c’è la finale, quindi apriamo noi i Giochi e questo ci permette di avere un grande successo di pubblico e tanta visibilità. Questo fa piacere, perchè poter mostrare quello che siamo capaci di fare è bello, ma al tempo stesso uno non ci deve pensare, perchè se inizi a fare questi pensieri sul fatto che tutta la famiglia, tutta Italia e tutto il mondo ti stanno guardando, le cose non andranno benissimo con tutta questa pressione auto-imposta”.

Prima hai parlato del vento di Londra: quanto influisce questo sulla vostra gara? Arrivate sempre alle Olimpiadi e ad ogni manifestazione con la consapevolezza di quali sono le condizioni meteo ed il vento del campo di gara?

”Ai Giochi Olimpici abbiamo la possibilità di provare un anno prima il campo, con l’evento preolimpico, per capire quali sono le condizioni e farci una prima panoramica: solitamente il periodo non è lo stesso delle Olimpiadi, ad esempio la preolimpica di Londra si è fatta ad ottobre con molto freddo, tantissimo vento ed uno stadio ancora incompleto, però abbiamo capito che avremmo trovato un campo ventoso e ci siamo allenati con quelle condizioni, scegliendo un campo italiano molto influenzato dal vento”.

 

Abbiamo parlato di quanto sia difficile tornare a casa dopo un’Olimpiade, ed immaginiamo che farlo dopo aver vinto un oro sia decisamente più arduo…

”Sicuramente il post-Londra è stato più impegnativo e faticoso rispetto al post-Pechino, e al tempo stesso più gratificante: l’aeroporto di Linate era pieno di amici, parenti e arcieri venuti apposta per accoglierci e questo ha fatto decisamente piacere. Poi ovviamente il viaggio Londra-Milano era molto breve e ci siamo goduti maggiormente il momento, mentre al ritorno da Pechino eravamo sconvolti ed abbiamo scelto di tornare a casa velocemente: i festeggiamenti per l’oro sono stati quindi più lunghi, ma anche al ritorno da Pechino eravamo soddisfatti, non c’è stato mai lo spettro del mancato oro. Ripeto, quell’oro è stata la chiusura di un percorso”.

Anche tornare ad allenarti qui a Voghera, dopo un oro olimpico, non sarà stato facile...

”Mah, sicuramente cambiano più la percezione  e l’atteggiamento degli altri nei tuoi confronti, che non la mia: io ero Mauro Nespoli prima e lo sono adesso, tiravo con l’arco prima e lo faccio tuttora, però cambia la disposizione degli altri verso di te: soprattutto quando si fanno gli incontri coi bambini, poi, c’è questa sorta di timore reverenziale e di idolatria per chi ”ha vinto le Olimpiadi”, mentre io cerco di essere sempre uguale. Mi ritrovo a vivere quella situazione che avevo sperimentato dall’altra parte, quando avevo incontrato i miei idoli sull’aereo per Pechino, e forse adesso capisco anche l’atteggiamento dei vari Cassina e Rossi ed il loro non cambiare o essere diversi nei miei confronti, ora. La cosa bella di questa popolarità è l’andare nelle scuole a raccontare la mia esperienza, e poter restituire ad altri quello che il tiro con l’arco mi ha dato o trasmettere un’emozione positiva: una sensazione, questa, che è pari a quella di vincere una medaglia”.

Oltre alle Olimpiadi, tu hai vissuto la nuova esperienza dei Giochi Europei di Baku del 2015, e vinto l’oro nel mixed team in coppia con Natalia Valeeva: quali sono i tuoi ricordi di questa rassegna, che tra l’altro è stata evitata volontariamente da tantissimi atleti?

”I Giochi Europei sono stati una bellissima manifestazione secondo me, una cosa importante proprio perchè il clima era molto simile a quello delle Olimpiadi: anche lì c’è il Villaggio, anche lì ci sono svariate discipline sportive ed anche un numero di partecipanti simile a quello dei Giochi. A me sono piaciuti molto, però purtroppo è stato scelto l’anno sbagliato, e per un certo periodo ho condiviso le polemiche fatte da svariati atleti che poi non hanno partecipato: il 2015 per noi significava la qualificazione olimpica da centrare ai Mondiali del mese successivo, quindi la preparazione per Baku avrebbe potuto compromettere l’avvicinamento ai Mondiali. Io l’ho vissuto come un avvicinamento al campionato del mondo, perchè difficilmente potevi ottenere un buon risultato nel Mondiale senza far bene a Baku: non ero partito con l’idea di vincere una medaglia, ma è arrivata e mi sono goduto questo successo ed una kermesse che poi mi ha caricato di energie in vista della rassegna iridata”.

E con questo ricordo dei recenti Giochi europei di Baku, si chiude la parte ”storica” della nostra intervista a Nespoli: domattina arriverà anche il pezzo riguardo Rio e le speranze del nostro portacolori per i Giochi del 2016, restate sintonizzati su Azzurri di Gloria!

Marco Corradi
31 anni, un tesserino da pubblicista e una laurea specialistica in Lettere Moderne. Il calcio è la mia malattia, gli altri sport una passione che ho deciso di coltivare diventando uno degli Azzurri di Gloria. Collaboro con AlaNews e l'Interista

Potrebbero anche piacerti...

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Altro in:Interviste