La Finlandia sullo sfondo. Al centro l’impresa di un piacentino raccontata da un ligure d’adozione. Sono quasi coetanei: il primo è un ventiseienne in marcia da sempre, il secondo un ventottenne prestato al giornalismo. Giuseppe Dordoni è a Helsinki per vincere, Italo Calvino è in Finlandia per raccontare i Giochi della XV Olimpiade, la prima manifestazione internazionale alla quale parteciperanno per la prima volta anche gli atleti sovietici.
La terza pagina dell’edizione genovese de “l’Unità” uscita sabato 26 luglio 1952 ospita l’elogio del vincitore della marcia 50 km. L’articolo si apre con una riflessione sul destino del marciatore, l’atleta solitario per eccellenza: “Tra gli atleti, il marciatore è quello che ha il destino più solitario […] a un certo punto della gara si trova solo, staccato dagli avversari spesso di molti minuti, attorno non ha uno stadio creato apposta per lui ma le strade di tutti gli uomini fatte per camminarci tutti i giorni […] il pubblico è rado, disseminato su un lunghissimo percorso e gli applausi scoppiettano isolati e subito tacciono; gli accompagnatori e i giudici che seguono l’atleta possono incoraggiarlo, consigliarlo […] ogni passante può tenergli per un po’ dietro, rivolgergli la parola e lui può anche attaccar conversazione, ma pure è come se fosse in un altro mondo […] come separato da un muro invisibile da quelli che gli sono intorno solo con la sua fatica e la sua volontà”.
Un atleta che non corre al centro di uno stadio, ma nel bel mezzo della natura: “Per vedere arrivare i marciatori, mi avviai per il viale asfaltato che passando dietro lo stadio, costeggia la ferrovia e porta al villaggio olimpionico di Kapyla. Era uno dei soliti pomeriggi di questa estate scandinava, misto di sprazzi di pioggia e di sprazzi di sole. La strada era in lieve salita, a grandi curve tra alberi e prati. Il terreno bagnato di pioggia, la linea ferroviaria e le file di soldati che sorvegliavano il percorso mettevano in cuore una sottile punta di malinconia”.
Uno sportivo che sa farsi attendere, che arriva davanti a tutti perché in fondo non ha mai mollato: “Erano quasi passate le previste quattro ore e mezza dalla partenza e ancora nulla preannunciava l’arrivo […] finalmente qualcosa apparve laggiù in fondo. Un camioncino che procedeva lentamente, un uomo in «bici», qualche vigile pure in bicicletta, e il marciatore col suo muovere di spalle e gomiti e il suo passo lanciato. Era un azzurro! Dordoni ce l’aveva fatta, era in testa! Dall’alto d’un camioncino lo seguivano i compagni intabarrati negli impermeabili azzurri. Lui chiedeva: – Si vede? – I compagni guardavano indietro, verso la curva, in fondo alla strada vuota. – No, non c’è ancora – rispondevano – Avvertitemi, appena si vede – diceva Dordoni parlando a brevi scatti, per non spostare il ritmo del respiro – Ecco, adesso svolta – gli dissero. Alla curva era comparsa la maglia rossa dell’inseguitore, il cecoslovacco Dolezai. Dordoni accelerò”.
E alla fine vinse. Lui, l’emblema della fatica per lungo tempo, la concretizzazione della gioia in quell’istante: “A uno a uno, a intervalli che parevano lunghissimi, i marciatori passavano […] Così marciarono per i viali di Helsinki, ognuno solo con la sua fatica, con un gran muovere di spalle e di gomiti. E per ognuno, da parte degli spettatori disseminati ai lati della via, c’erano applausi”. Gli stessi applausi rivolti a Giuseppe Dordoni, l’azzurro di gloria della marcia 50 km alle Olimpiadi di Helsinki 1952.
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