“Ho avuto la fortuna di giocare in una delle squadre più forti di tutti i tempi, l’Itas Diatec Trento del 2011. Eravamo la squadra delle tre vittorie consecutive, tra Campionato, Champions League e Mondiale per club. Credo che quella squadra avrebbe dato del filo da torcere anche al miglior Brasile, con i vari Raphael, Stokr, Osmany Juantorena, Matej Kazinsky, Emanuele Birarelli e Djuric. E poi c’eravamo io e Colaci”.
Gli appassionati di pallavolo ricorderanno il Dream Team trentino che dominò in lungo ed in largo per diverso tempo. A difendere il campo dei ragazzi allenati da Radostin Stoychev c’era un ragazzo veloce, agile e reattivo, che con le sue ricezioni permetteva alla squadra di costruire i suoi successi. Andrea Bari ha vinto tutto con Trento ed è stato protagonista con la Nazionale azzurra alle Olimpiadi di Londra 2012. Nel 2014 ha scelto la Robur CMC Ravenna per continuare la sua straordinaria carriera. Azzurri di Gloria ha avuto il piacere di fare una chiacchierata con il libero della formazione ravennate.
Bari ci racconta i suoi ricordi olimpici, svelando un particolare famigliare curioso ed inedito: “I primi ricordi delle Olimpiadi risalgono al 1984 perché mio padre andò con la spedizione azzurra come riserva della squadra di tiro al volo. Una volta c’era questa possibilità e c’erano molti più posti nella nazionale. Quindi andò in America. In realtà non partecipò ma fece parte della spedizione olimpica. Mi ricordo quando partì e quando ritornò ci portò dei regali bellissimi dal Los Angeles. Il primo ricordo olimpico dunque è questo: la partenza di mio padre con la spedizione azzurra per l’America, con tanto di vestiti della nazionale di quel tempo. Fece la parata iniziale come feci anch’io 28 anni più tardi. È stato motivo d’orgoglio anche per me quando ero piccolo poter dire che mio padre era stato alle Olimpiadi anche se di fatto non gareggiò perché era una riserva. Poi crescendo ho seguito tutte le altre Olimpiadi e mi sono concentrato sulla pallavolo quando è diventata il mio sport. Ricordo i Giochi del 1996, con quella famosa partita persa al tie break dall’Italia contro l’Olanda, che, credo, chiunque abbia più di trent’anni e sia appassionato di pallavolo ricordi. Poi ho seguito chiaramente Sydney 2000, concluse con il bronzo, e l’argento di Atene 2004 e sicuramente Pechino 2008 quando già ero stato comunque convocato qualche volta in Nazionale. Non giocare quell’Olimpiade era diventata il mio cruccio perché i Giochi erano il sogno nel cassetto che avevo sempre avuto e che poi si è avverato”.
Ma quali erano gli idoli ai quali il giovane Bari si ispirava nella sua adolescenza? “Dal punto di vista pallavolistico sicuramente colui che guardavo con più ammirazione era Samuele Papi perché era di Falconara e quando ancora non c’era il libero e giocavo in posto 4 era quello a cui volevo assomigliare il più possibile. Fortuna ha voluto che ho vinto anche una medaglia con lui nel 2012. È stato molto bello potermi ritrovare con un giocatore che ammiravo quando ero ragazzino ed avevo iniziato a giocare a pallavolo. Per quanto riguarda gli altri sport, se dovessi indicare un idolo, essendo appassionato di ciclismo, in quel periodo seguivo Miguel Indurain, che era un ciclista molto tosto. Nel 1996, quando l’Italia conquistava l’argento, lui vinceva l’oro nella cronometro. Avevo lui come idolo sportivo anche se non c’entrava niente con la pallavolo. Ero veramente innamorato del suo carisma e del suo essere leader. Poi si potrebbero dire tantissimo nomi, da Carl Lewis a Michael Johnson per l’atletica ad esempio”.
Ma, nonostante la grande ammirazione per Indurain, Bari non ha mai pensato di lasciare la sua pallavolo per scegliere il ciclismo: “Non sono stato io a scegliere la pallavolo ma è stata la pallavolo a scegliere me. Considera che dai 5 agli 11-12 anni ho giocato a tennis e, tra l’altro, anche bene. Però poi crescendo in un piccolo paesino delle Marche era piuttosto difficile accedere alle strutture ed essere seguiti da allenatori importanti. Nel frattempo mio fratello maggiore iniziò a giocare a pallavolo e poi, quando abitavamo in campagna, mio padre aveva costruito un piccolo campo in erba con la rete. Le cose mi riuscivano piuttosto bene nonostante avessi come insegnante solamente mio fratello che mi mostrava cosa aveva insegnato nel nostro paese. Dopo due anni ho iniziato anch’io e non ho più smesso. Mi veniva abbastanza bene. Ero un ragazzo molto precoce, madre natura mi aveva dato una buona altezza, visto che a 12 anni ero alto 1,80m. Poi non sono più cresciuto (ride ndr.) però questo mi è stato utile dopo con le nazionali giovanili. Comunque è stato un insieme di non scelte; e poi mi riusciva bene giocare a pallavolo. Sono uscito dal settore giovanile di Falconara che era uno dei migliori ed è iniziata la mia carriera. Ho provato anche a fare altro: ad esempio ho provato con l’atletica e con il salto in alto, sempre da autodidatta durante il periodo scolastico ma poi a 17 anni ho mollato. Per il ciclismo era solo una passione senza averla mai provata. Più avanti mi sono anche comprato una bici da corsa per tenermi in forma durante le estati ma era solamente una passione nata guardando il Giro d’Italia ed il Tour de France in televisione. Basti pensare che a maggio e a luglio non uscivo di casa quando c’era la corsa. È uno sport che amo ancora adesso, anche se è totalmente diverso rispetto a quello che faccio di solito”.
La nostra chiacchierata inevitabilmente si sofferma su Londra 2012, la sua Olimpiade: “Devo fare un preambolo. Un ragazzino solitamente sogna di giocare e vincere una medaglia alle Olimpiadi. Personalmente avevo dei sogni nel cassetto “a step”: quando ho iniziato a giocare a pallavolo sognavo un giorno di andare alle Olimpiadi. Mi ricordo che già la squadra di serie C che avevo vicino a casa mi sembrava qualcosa di stratosferico. Dopo un anno e mezzo in serie C ci ero arrivato. A 20 anni, arrivando in serie A avevo capito che si poteva ambire ad arrivare in Nazionale e partecipare alle Olimpiadi. Alla fine sono arrivato in Nazionale non proprio prestissimo e devo essere sincero: dopo il 2008, è stata una delusione non essere riuscito ad entrare nel gruppo che è andato a Pechino. Credevo che il mio sogno di partecipare alle Olimpiadi sarebbe sempre stato un sogno destinato a rimanere nel cassetto. Invece, nel 2008 iniziò la favola di Trento e nel 2012 la possibilità si è ripresentata. Ora ne parlo come di un bellissimo ricordo ma l’avvicinamento ai Giochi Olimpici non è affatto una cosa facile. Ci sono tre categorie di atleti: quelli che sono arrivati alle Olimpiadi consapevoli di non poter raggiungere alcun risultato di rilievo e vivono le competizioni come una sorta di “vacanza”, sicuramente la più bella che si possa fare; quelli che se azzeccano la giornata giusta possono ambire a piazzamenti importanti; infine quelli che si giocano le medaglie e lo stress è molto alto, anche perché si è consapevoli che potrebbe essere un’occasione unica e vogliono giocarsela al massimo. Mi ricordo dell’avvicinamento in modo molto sereno ma era stressante il fatto di non essere sicuro di disputarle fino all’ultimo, sia per scelta tecnica che per un infortunio perché basta poco per vedere il proprio sogno svanire un giorno o una settimana prima. Ricordo quel mese e mezzo di avvicinamento come molto bello e pieno di emozioni ma anche come un periodo molto stressante. Per quanto mi riguarda, era la prima Olimpiade mentre per altri era la seconda o la terza o la quarta. Ricordo nei minimi dettagli la preparazione, la borsa fatta prima di partire, il saluto alle persone care, il viaggio a Londra. Arrivammo in Inghilterra una settimana prima. Ricordo quando facemmo il check in al villaggio olimpico con il famoso pass che dà accesso a tutte le aree liberamente. Cercavo di vivere ogni momento fissandolo nella mia memoria, sapendo che probabilmente non capiterà mai più. Nei giorni successivi si tornava al lavoro e ricominciava quello stress positivo perché c’era la consapevolezza che ci si giocava qualcosa che per la propria carriera era troppo importante. Le Olimpiadi sono il sogno di qualsiasi ragazzino e questo spiega perché sia una situazione molto emozionante. Il momento più bello delle Olimpiadi è la serata di inaugurazione, quando tutte la nazioni entrano nello stadio olimpico. Probabilmente è stato il momento più alto della mia carriera sportiva dal punto di vista emotivo”.
La cavalcata azzurra si fermò solamente in semifinale contro il Brasile di Bernardinho, poi sconfitto in finale contro la Russia. Bari analizza il cammino azzurro e quella partita sfortunata, che però non pregiudicò il terzo posto e la medaglia tanto agognata: “Chiudemmo il girone al quarto posto e ci qualificammo per i quarti con un solo punto di vantaggio rispetto alla quinta classificata. Non giocavamo bene e non eravamo belli da vedere, eravamo nervosi, alternavamo set buoni con altri negativi. Nella prima fase eravamo concentrati più su noi stessi che sul resto. Poi disputammo la nostra miglior partita contro gli USA, che erano passati per primi nel girone con Russia e Brasile. Mettemmo in campo tutto quello che avevamo e disputammo una partita perfetta. Il Brasile era la squadra da battere dal punto di vista dell’organico. Comunque eravamo abbastanza fiduciosi perché loro erano fortissimi ma avevano dato qualche segnale di cedimento durante il torneo. Ci eravamo detti di essere incisivi con il servizio e di non far giocare Bruninho. In realtà ci hanno fatto vedere la palla all’inizio e ce l’hanno ridata alla fine (ride ndr.). Probabilmente non siamo mai stati in partita ad eccezione del primo set. Loro hanno giocato veramente molto bene. Sicuramente la partita contro di noi è stata quella che il Brasile ha interpretato nel modo migliore. Noi ovviamente ci puntavamo moltissimo perché vincere una semifinale vuol dire avvicinarsi all’oro o all’argento. Si dice che sia meglio il bronzo dell’argento ma non condivido questa filosofia: l’argento rappresenta il secondo posto, il bronzo il terzo. Quando si conquista l’argento vuol dire che si è arrivati in finale e questo sicuramente non tornerà più nel mio caso. Alla fine siamo stati bravi a non demoralizzarci troppo come era accaduto invece a Pechino. Sapevamo che dopo due giorni ci saremmo giocati il bronzo che era comunque un grande obiettivo perché all’inizio del torneo quasi nessuno considerava la nostra squadra come una delle prime quattro. Mi ricordo molto bene la vigilia della partita contro la Bulgaria: avrò dormito forse un’ora. Si andava a dormire verso mezzanotte e poi ci svegliavamo alle 5:30 per fare colazione perché giocavamo prestissimo, alle 9:30. Inoltre dovevamo fare un’ora e mezzo di viaggio tra villaggio olimpico ed il nostro palazzetto. Ricordo che la tensione era altissima e che volevamo fortemente questo bronzo. Nonostante non avessimo giocato una gran partita, forse, abbiamo voluto con più convinzione la medaglia e alla fine l’abbiamo spuntata”.
Nel corso del suo racconto, Bari si emoziona parlando della medaglia di bronzo conquistata a Londra e spiega il significato e l’importanza di quel premio. A distanza di quattro anni, il libero marchigiano afferma di provare ancora una sensazione unica, come emerge dall’intervista: “Non sono riuscito neanche a guardarla bene, se devo dire la verità. Poi c’era la mia famiglia ed i famigliari dei miei compagni e le persone che mi hanno sostenuto durante questi anni. È stato emozionante quando ci spiegavano il cerimoniale che di solito è molto rigido. Infatti abbiamo nascosto sotto la tuta una maglietta dedicata a Bovolenta, che i controllori del cerimoniale non ammettevano ma siamo riusciti ad eluderli. È stata un’emozione indescrivibile perché poi capisci che sono momenti unici, che non si vivono di solito. E poi comprendi che ci sono persone che non hanno mai visto una medaglia e che probabilmente la vedranno perché gliela porterai tu. Capisci quando la guardano e quando guardano te il valore che ha una medaglia olimpica. È molto di più della sfida tra due squadre. È qualcosa di speciale, che si fa realmente fatica a spiegare. Ho avuto una sorta di rifiuto di rimettermi quella medaglia per qualche mese perché era come se la volessi preservare da qualcosa di non ben definito. Quando mi è passata tutta quella adrenalina, che non va via in una notte, ho realizzato quello che ho fatto. Quando prendo in mano la medaglia mi torna ancora quella pelle d’oca ripensando a quei momenti speciali”.
E Bari sogna ancora Rio 2016? Ovviamente sì, anche se sa che convincere Blengini non sarà semplice: “Alla Nazionale non rinuncerei mai, anche se avessi 50 anni. Farò di tutto per mettere in difficoltà Blengini. Fare un’Olimpiade continua ad essere un altro mio sogno. Poi è giusto che ci vada la squadra migliore. Se in questa annata riesco a fare cose positive e l’allenatore ha bisogno di me, mi farò trovare pronto, sempre. La vedo come una cosa leggermente improbabile ma questo è accaduto anche dopo il 2008. C’erano condizioni ed età diverse e non sono Papi (ride ndr.). Inoltre la Nazionale in questi ultimi mesi ha fatto un salto di qualità notevole. L’importante è che abbia trovato la giusta sinergia tra staff e giocatori. Siamo sulla strada giusta. Comunque essendo italiano, tiferò sempre per l’Italia anche se non dovessi far parte della spedizione. Ovviamente ci spero sempre e farò di tutto per mettere in difficoltà l’area tecnica”.