Azzurri di Gloria ha avuto il piacere di intervistare Amine Kalem, vincitore del bronzo a Rio 2016 nel tennistavolo paralimpico.

Amine Kalem (fonte SporTorino)

AMINE KALEM SI RACCONTA AD AZZURRI DI GLORIA

Testa e cuore. Questi sono gli ingredienti per poter scalare gli ostacoli più duri che la vita presenta. Se poi c’è anche un talento naturale, allora si può sognare in grande. Amine Kalem possiede tutte queste qualità. Lo si intuisce già solamente parlandogli, ascoltarlo con ammirazione mentre svela i segreti della sua crescita. Se non bastasse, si potrebbe osservare i numeri della sua crescita nella passione di una vita: il tennistavolo. L’azzurro di origini tunisine classe 1982 ha saputo affermarsi rapidamente, migliorando con pazienza e dedizione. La svolta della sua carriera è stata molto probabilmente il bronzo conquistato alle Paralimpiadi di Rio 2016, quando si piazzò sull’ultimo gradino del podio dopo essere stato ripescato all’ultimo momento. Questo è uno degli aneddoti che Amine ha raccontato nel corso dell’intervista gentilmente concessa ad Azzurri di Gloria.

Amine, si è concluso un 2017 intenso. Qual è il tuo giudizio?

<<Abbiamo lavorato bene, i risultati sono arrivati. Gli Europei mi hanno portato anche una medaglia nel doppio. Difficile chiedere di più>>.

Ti aspettavi qualcosa di più?

<<No, quello che era previsto è stato rispettato>>.

Qualche rimpianto?

<<Il rimpianto c’è stato per com’è andato il doppio con Samuel Di Chiara. Se avessimo vinto quella partita, avremmo avuto ottime chance. Comunque, noi abbiamo iniziato a giocare da poco. Siamo soddisfatti per i progressi. I belgi giocano insieme da 10 anni. Quindi è già buono il risultato che abbiamo ottenuto, non possiamo lamentarci troppo>>.

Tenendo presente la minore conoscenza tra di voi, non potete che migliorare.

<<Sicuramente, penso di sì o rimani così o arriva l’oro. Programma di lavorare sempre insieme>>.

In che cosa dovete ancora migliorare? Cosa vi manca per poter essere al livello dei migliori?

<<Dobbiamo ancora lavorare sull’intesa e sulla strategia. Il doppio ha un peso importante nella competizione. E pensare che abbiamo perso solo il doppio della finale, compromettendo l’esito conclusivo. Invece, nei turni precedenti, abbiamo vinto la partita, conquistando anche il doppio. Abbiamo battuto anche i campioni del mondo. Del resto le squadre si assomigliano tra di loro. Tutti hanno un componente forte ed uno meno forte. Per questo, il doppio ha un’importanza notevole>>.

Quali sono i cambiamenti tattici tra il singolo ed il doppio?

<<Nel singolo si sa come gioca l’avversario e sai cosa devi fare. Chi è più pronto e trova la soluzione giusta vince. Nel doppio serve tempo e la migliore strategia. Non è questione di allenamento ma serve più attenzione. Tutti conoscono il top spin, il colpo piatto, il giro. Non è la tecnica a far la differenza, ma la strategia corretta. A volte si può vincere anche con un colpo molto semplice, quasi da oratorio, applicato però nel momento corretto>>.

E come si può elaborare una strategia? Guardate le vostre partite e quelle dei vostri avversari?

<<Questo è compito dell’allenatore. Solitamente dedichiamo mezz’ora osservando insieme gli ultimi incontri e poi il tecnico ci spiega come abbiamo vinto o perso il punto e su quale aspetto lavorare. È lui che studia la tattica da adottare. A volte ci corregge anche in partita in corso, a seconda del momento. Si può iniziare con un’idea di gioco e poi cambiare, in base a come si evolve la gara, alla strategia degli avversari>>.

Da questo quadro, ne emerge un tennistavolo molto più tattico di quanto possa sembrare dall’esterno.

<<Certamente, chi lo pratica si accorge presto che è un gioco molto tattico. Spesso noi facevamo colpi normalissimi, ma efficaci in quel momento, con quella strategia. Non è come il tennis, è tutto un altro sport. C’è chi predilige un gioco con tanto effetto e chi la forza fisica, c’è chi soffre di più una tattica ragionata e chi una strategia più violenta>>.

Ha mai giocato con atleti normodotati?

<<Io gioco in serie A contro normodotati. In molti inizialmente non si erano accorti del mio handicap e mi hanno sempre considerato un atleta normodotato>>.

Da dove nasce questa passione per il tennistavolo?

<<Ho imparato in Tunisia, il mio paese d’origine. Si potevano praticare solamente calcio e tennistavolo. Avevo un problema da bambino, una malattia alle ossa. Non mi hanno mai dato neanche un certificato. Così, l’unico sport in cui non potevo avere un contatto fisico con l’avversario potenzialmente nocivo per me era il tennistavolo. Ho iniziato a praticarlo all’età di 12 anni. Ho vinto gare importanti. Loro non si sono mai accorti del mio problema fisico>>.

Quindi era quasi una scelta obbligata. Come mai hai scelto di gareggiare per l’Italia?

<<Mi avevano chiamato inizialmente in Tunisia. Se avessi seguito loro, non avrei vinto forse una medaglia olimpica a 34 anni. A 14 anni mi dissero che mi avrebbero fatto una visita per farmi giocare per il mio Paese, dato che ero già abbastanza bravo. Poi mi dissero che non ero stato ammesso con i paralimpici. Fu una delusione, un brutto colpo. Pensai che se avessi continuato a giocare con i normodotati avrei vinto in patria, ma all’estero non avrei avuto speranze. Così, ho deciso di lasciare il tennistavolo. A 22 anni mi sono trasferito in Italia. Ho cercato e trovato una squadra di tennistavolo, a Varese in Lombardia, in Serie B. Lavoravo, facevo il muratore per mantenermi. Era faticoso, a maggior ragione per il mio fisico. Ho cambiato occupazione, diventando un saldatore. Era dannoso per le mie ginocchia, mi facevano sempre male. E mentre facevo tutto ciò, giocavo. Poi ho trovato un impiego più comodo per il mio fisico. Da sette anni faccio il corriere. È stancante, ma solo di testa, non di fisico. Capita poche volte di portare pacchi pesanti. Comunque non ho mai preteso un incarico comodo ed agevole. “Non pensare di lavorare in ufficio quando arriverai in Italia” mi diceva mio padre. Ed io ho sempre cercato lavoro in qualsiasi ambito. Ho conosciuto mia moglie nel 2011. Abbiamo avuto una bambina e poi ho deciso di esporre domanda per la cittadinanza. Ho dovuto aspettare 4 anni. Quindi ho ricevuto la chiamata della Nazionale italiana paralimpica di tennistavolo. Mi avevano notato perché avevo vinto incontri importanti. Non sapevo esattamente quanto avrei dovuto aspettare anche per l’iter burocratico. Diciamo che la convocazione mi ha permesso di velocizzare alcune pratiche. È stato bellissimo giocare per l’Italia. Ho vinto subito l’argento. Avevo solo 8 mesi per qualificarmi a Rio. Ho battuto i primi 10 al mondo. Fatto tanti punti e mi sono classificato al 16esimo posto nel ranking. Era un buon risultato tenendo presente il poco tempo a disposizione. Quando hanno detto che prendevano solo i primi 15, è stato un momento molto difficile. Eppure, il mio allenatore mi ha detto di non rassegnarmi. Poi ho scoperto che l’atleta russo numero 3 non è stato convocato in Brasile a causa dello scandalo doping. Avrebbero chiamato il sedicesimo. Federazione mi ha chiamato e mi ha detto: “Vai a Rio”. Era il giorno più bello della mia vita. Già andare alle Paralimpiadi era un sogno, qualcosa di speciale. E poi era tutto aperto per la lotta alle medaglie. Ero l’ultimo della lista, ma sono riuscito a passare il girone, trovando ai quarti il numero 1 del mondo, Zhao Yiqing. Questo era imbattibile sulla carta. Eppure, l’ho eliminato dopo una partita tiratissima. Lui ha usato la forza, ma io ho usato la testa. Credo che lui mi abbia in qualche modo sottovalutato>>.

Un’impresa clamorosa. Quanto ha influito quel successo sul proseguo del cammino?

<<Pensa che nemmeno mi ha salutato, talmente lo infastidiva il mio stile di gioco. Io ho perso con l’olandese numero 6 ed ero meno concentrato. Ho risentito in parte di quel match>>.

Come hai gestito quel momento?

<<Mi sono detto: “O vado in finale o gioco per il terzo posto”. È stato un modo per rassicurarmi. In fondo, il nostro è uno sport in cui c’è una forte pressione di testa. La partita dura mezz’ora e bisogna pensare che tutto l’allenamento di un anno si vede lì. Se si perde, l’impegno di un anno finisce per svanire lì in 30 minuti>>.

Immagino che questo sia stato un elemento importante quando Lei ha affrontato il numero 1 al mondo.

<<Non è stato semplice, ma il mio avversario ha accusato la pressione più di me. Lui aveva paura, perché aveva lì per vincere, io no. La qualificazione era il mio risultato. È stato un torneo giocato senza pressione. Non avevo l’obbligo di conquistare una medaglia. Adesso mi conoscono, parlano di me. Prima non era così. E infatti, quando ha visto che la partita si era fatta difficile, lui si è innervosito tanto perché non accettava di perdere contro un outsider>>.

E com’è stato giocarsi la medaglia di bronzo a Rio? Insomma, è pur sempre un momento palpitante.

<<La testa può andare oltre le tue forze fisiche. Se sei lucido e freddo, puoi ottenere risultati incredibili. Ripeto: tutti sono capaci di fare i top spin o di dare un effetto particolare. Conta l’aspetto mentale Ho giocato per divertirmi. Anche per questo, la vittoria con lo spagnolo Juan Bautista Perez Gonzalez è sembrata facile facile. Ho giocato con determinazione, ma anche con la consapevolezza di aver già fatto tantissimo. Ho sempre pensato a quando mi avevano detto che avrei partecipato alle Paralimpiadi. È stato un grande stimolo>>.

Come si fa a mantenere quella concentrazione e quella cattiveria agonistica?

<<Dipende anche te. Credo in Dio. Lui ti dà la forza. Ti fa stare tranquillo. A volte ho fatto cose difficili, quasi senza accorgermene. Comunque non basta solamente quello. Conta anche la personalità dell’atleta. Ho vinto spesso con la grinta. Anche a Rio non ero il più forte. Ci sono tanti altri atleti molto allenati. La differenza l’ha fatta la grinta. Il mio allenatore mi ripeteva sempre questa frase: prima devi combattere contro te stesso e poi contro l’avversario. Allora ero un bambino e non capivo cosa volesse dire. Adesso mi è tutto più chiaro>>.

Ed ora che Lei è diventato uno dei favoriti come si sente? È aumentata la pressione?

<<Adesso devi stare più attento e devi lavorare di più. Gli altri tentano di metterti sotto e di farti paura. Ora devo combattere con quella paura che avevo prima. È difficile mantenere un alto livello. L’importante è non avere paura e non sottovalutare nessuno. Ora sono il numero 5 al mondo, ma non è detto che possa vincere con il numero 30 così facilmente. Tutti sono capaci di giocare e se trovi un avversario che è più grintoso può darti fastidio. E non si sa mai come va a finire>>.

È la difficoltà di uno sport del genere, in cui ogni punto è importante.

<<Esatto. Infatti, io sempre vinto “male”, lottando dal primo all’ultimo punto, senza mai rilassarmi. Mi piace l’atteggiamento dei giocatori giapponesi. Sono amico con alcuni di loro. È bello vederli combattere su ogni punto e, anche se la situazione è disperata, non si perdono mai d’animo. In campo, mi sento come loro, un lottatore, un guerriero. Ed è anche per questo che fatico con i giocatori nipponici>>.

Tattica, concentrazione e rapidità. Il tennistavolo è uno sport unico.

<<È come giocare a scacchi, correndo i 100 m. Eppure, giocare mi trasmette una tranquillità incredibile. Quando sono sul 10-8, non avverto mai la tensione>>.

C’è uno degli atleti paralimpici da cui ha preso spunto per la Sua carriera?

<<Bebe Vio, assolutamente. Anche se devo dire che tutti gli atleti paralimpici sono forze della natura. Ho fatto solo una Paralimpiade, ma ho visto una forza di volontà incredibile. Addirittura, sono arrivato a pensare: “Che disabilità ho io? In fondo, si tratta di qualcosa di minore rispetto a molti di loro. Anzi, io devo diventare come loro”. Mi danno molta forza. Spero di poter imparare sempre qualcosa di importante da tutti>>.

Parliamo di progetti per il futuro: un traguardo importante sarebbe Tokyo 2020, giusto?

<<Assolutamente. Il mio posizionamento nel ranking attuale è la posizione numero 5. Se verranno convocati i primi 15 atleti, tra tre anni dovrei partire per Tokyo. Ci spero e mi farebbe molto piacere>>.

Cosa consiglierebbe a chi inizia a giocare a tennistavolo?

<<Questo sport deve piacere. Consiglierei di farlo specialmente ai paralimpici. Per me è qualcosa di unico. Il suono della pallina che rimbalza è come se fosse musica. È un piacere a cui non so rinunciare. Per questo, giocare a tennistavolo dev’essere prima di tutto uno sport gradevole. Non si può pensare di iniziare e di arrivare in alto, magari alle Olimpiadi. Serve tanta pazienza ed una grande passione>>.

Federico Mariani
Nato a Cremona il 31 maggio 1992, laureato in Lettere Moderne, presso l'Università di Pavia. Tra le mie passioni, ci sono sport e scrittura. Seguo in particolare ciclismo e pallavolo.

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