La prima intervista di “Azzurri di Gloria” ha un grande peso storico, oltre che sportivo. Abbiamo scambiato due chiacchiere con Francesco Moser, autentica leggenda del ciclismo italiano capace di vincere, tra le tante corse, anche un Giro d’Italia, un mondiale, tre Parigi-Roubaix, un Giro delle Fiandre e due Giri di Lombardia, oltre che di infrangere il record dell’ora.
Partecipò alle Olimpiadi di Monaco del 1972, tristemente conosciute per l’attentato terroristico in cui persero la vita 11 atleti israeliani. Con lui abbiamo parlato di tutto, soffermandoci in modo particolare sulla tematica olimpica e sulla sua testimonianza diretta di quel tragico evento. Ecco le sue parole.
– Se le dico “Olimpiadi” quale è la prima cosa che le viene in mente?
– Mi viene in mente la nostra squadra che aveva partecipato, che non era fatta di professionisti ma di dilettanti. Allora il regolamento era diverso. Un anno e mezzo prima dell’evento ero stato inserito nella squadra dei cosiddetti “probabili olimpici”, che era un gruppo di atleti che faceva ritiri e gare con la nazionale. All’epoca avevo iniziato a correre da appena un anno. E dopo siamo andati a Monaco.
– Le Olimpiadi del ’72, quelle a cui ha partecipato, sono ovviamente passate alla memoria per l’attentato terroristico che ha portato all’uccisione di 11 atleti israeliani da parte di un commando palestinese. Ci dica cosa si ricorda di quel giorno.
– Una notte sono entrati nel villaggio un gruppo di terroristi palestinesi che ha sequestrato alcuni atleti israeliani (che poi sarebbero morti tutti e 11, ndr). Noi non ce ne siamo accorti subito. Ci siamo resi conto dell’accaduto la mattina seguente quando, per andare a fare colazione alla mensa in cui andavano tutti gli atleti del villaggio, abbiamo visto un enorme schieramento di polizia. Abbiamo dovuto scavalcare delle reti e fare un giro lungo perché per andare alla mensa saremmo dovuti passare proprio davanti alla zona del villaggio in cui è accaduto il sequestro e chiaramente non ci lasciavano passare. Il giorno seguente sono state sospese tutte le gare.
– In che modo si può riprendere a gareggiare “normalmente” dopo un episodio simile? Com’è stata Monaco nel post-attentato?
– Noi eravamo concentrati sulla gara ma è chiaro che c’è stato un enorme trambusto che sarebbe stato meglio non fosse successo. Da quel momento in poi, anche nelle Olimpiadi successive, muoversi per il villaggio olimpico è sempre stato molto meno libero perché le misure di sicurezza sono via via aumentate. Come prove ho disputato la 100 km e la corsa in linea, dove non ho potuto fare la volata finale perché ho bucato a 1 km dal traguardo e sono arrivato poi ottavo.
– Parlando invece del lato sportivo: che emozione prova un atleta a partecipare a una Olimpiade? Quali sono state le sue emozioni durante la cerimonia d’apertura e durante la vita all’interno del villaggio olimpico? Escludendo, ovviamente, ciò che successe agli atleti israeliani.
– Noi ciclisti non eravamo insieme a tutti gli altri atleti. Stavamo in un distaccamento in una parte più tranquilla che poi si sarebbe successivamente trasformato in un complesso di casette a schiera. Alla sera andavamo a fare una passeggiata nel centro del villaggio e ci univamo agli altri. Ci si scambiava i distintivi del proprio paese tra atleti. Io ne avevo presi un po’ e me li ero attaccati sulle divise e sui berretti.
– Qual è stato il successo olimpico italiano che più l’ha emozionata? Non mi riferisco solo al ciclismo.
– Sicuramente la vittoria di Paolo Bettini ad Atene 2004, parlando di ciclismo. Mi ricordo bene anche la vittoria di Gelindo Bordin alla maratona di Seoul del 1988. Avevo visto la gara in tv prima di una gara di beneficenza e poi ho avuto anche modo di conoscere lui.
– Che speranze ha il ciclismo italiano a Rio?
– Se guardiamo i mondiali che abbiamo fatto siamo un po’ indietro rispetto agli altri. Il percorso olimpico però è un po’ più breve e magari c’è qualcuno che potrebbe fare qualcosa di buono.
– E più in generale, come vede il ciclismo italiano nel prossimo futuro? Quali sono gli elementi di maggiore spicco, soprattutto tra i giovani?
– Tra i giovani promette bene il trentino Gianni Moscon che sta proprio passando ai professionisti ora. Oltre a lui faccio i nomi dei “soliti” Nibali e Aru, che non sono fatti per le corse in linea ma sono di primissimo livello per le corse a tappe. Ormai non è più il ciclismo di una volta perché con la globalizzazione sono cambiate molte cose. Prima la torta veniva spartita tra Italia, Francia e Belgio, con qualche olandese e qualche svizzero che ogni tanto spuntava. Oggi gareggiano atleti di tutto il mondo ed è tutto più difficile.
– In quale ciclista dei giorni nostri si rivede Francesco Moser?
– È difficile dirlo perché oggi tutti i ciclisti sono specialisti di qualcosa e non è più come ai miei tempi in cui tutti correvano tutte le gare e al giorno d’oggi non succede più. Lo ha fatto un po’ Cancellara, ma ora è davvero tutto diverso.
– Qual è stata la sua vittoria più bella in carriera? E qual è stata invece la sua più grande delusione?
– Sicuramente il Giro d’Italia e il record dell’ora che ho conquistato nel 1984, anche se la Roubaix e il mondiale non sono stati da meno. Però Giro e record sono quelli che ricordo con più piacere. La più grossa delusione invece fu il secondo posto ai mondiali di Nürburgring nel 1978.
– Qual è il collega che ricorda con più affetto e il rivale più forte che ha mai incontrato?
– Io ho corso con Merckx e con Hinault che hanno vinto tantissimo, anche se Merckx forse era il più forte. Con Hinault andavo anche d’accordo, anche se è difficile parlare di un collega a cui sono rimasto più legato perché alla fine per me erano tutti avversari.
– Tornando alle Olimpiadi, si è già fatto un’idea sulle possibilità dell’Italia a Rio? Non mi riferisco solo al ciclismo ma a tutte le discipline.
– Siamo in un momentaccio. Non so quante medaglie prenderemo ma è difficile fare previsioni. Se stiamo a vedere nell’atletica non abbiamo preso medaglie agli ultimi mondiali e anche il ciclismo stesso non sta attraversando un buon momento.