A poco meno di tre mesi dall’accensione della fiamma olimpica a Parigi, lo sciabolatore Luca Curatoli, argento a squadre a Tokyo, racconta ai nostri microfoni la sua carriera agonistica, dalle radici famigliari al sogno a Cinque Cerchi.
Quanto ha influito nella tua vita da sportivo crescere a fianco di due figure come i tuoi fratelli Raffaello e Leonardo?
Ovviamente ha influito tantissimo. Raffaello è stato il campione della famiglia (bronzo nella sciabola ad Atlanta 1996, ndr) e in me è sempre stato presente il sogno di poterlo raggiugere un giorno. E questa è sempre stata una grande sfida per me. Ricordo una volta, quando avevo quattro o cinque anni, che Raffaello stava disputando i Mondiali e io davanti alla TV urlavo per incitarlo, con la certezza che lui potesse sentirmi. Leonardo, invece, è il mio maestro e ogni giorno mi segue con grande dedizione, influendo molto sul mio modo di fare scherma.
Hai mai preso in considerazione di cimentarti in un’altra specialità della scherma che non fosse la sciabola?
No, non ci ho mai pensato. Anche perché ognuno di noi è molto geloso della propria arma. Tra noi della scherma spesso, per gioco, diciamo che la nostra arma è la più difficile mentre quella degli altri è, ovviamente, la più facile. C’è una sorta di sfottò con gli altri. È capitato nei ritiri condivisi con le altre discipline di provare la spada o il fioretto, a margine degli allenamenti. Io stesso ho provato ma niente di più per quanto mi riguarda.
Quanto è importante il supporto del Gruppo Sportivo Fiamme Oro?
Il loro supporto è importantissimo. Sembra scontato dirlo ma non è così. Il Gruppo Sportivo ci permette di fare quello che amiamo, in particolare ci consente di tramutare a nostra passione in un lavoro. E da parte loro c’è, giustamente, la volontà e il desiderio di vederci emergere.
Quali sono i tuoi idoli sportivi, nella scherma ma anche negli altri sport?
Il mio idolo indiscusso è Francesco Totti, da piccolo seguivo la Roma perché c’era lui. Nella scherma ovviamente mio fratello Raffaello. In generale, comunque, non sono una persona che guarda agli altri. Un’esperienza che però ricordo con grande piacere riguarda Aldo Montano. La prima volta che ci scontrammo in pedana fu ai campionati italiani assoluti, quando io avevo 14-15 anni, ero un cadetto del primo anno, mentre Aldo era già un campionissimo affermato. Si trattò di un assalto a quindici che lui vinse agevolmente.
Cosa ha significato per te l’Olimpiade di Tokyo 2020?
L’Olimpiade di Tokyo è stata una bellissima esperienza. Per noi atleti rappresenta il coronamento della carriera, e tutti vogliamo arrivarci nel migliore dei modi, perché già la qualificazione è difficile. Personalmente non è bello sentire alcune persone dire che noi pratichiamo sport minori. Tokyo è stata un’esperienza unica, sotto tutti i punti di vista. Spero di poter vivere l’Olimpiade di Parigi con tanto pubblico, che mi dà sempre tanta energia. Mi piace gareggiare davanti a tante persone, sia che tifino per me che per gli altri.
E’ stato più grande il rammarico per la finale a squadre persa contro la Corea del Sud o il vanto di fregiarsi di una medaglia olimpica?
Il limite è sottile. Nel calcio, per esempio, se arrivi in finale mondiale e poi perdi, hai perso e basta. La scherma è diversa, la medaglia è sempre onorata. A Tokyo la Corea del Sud ci era superiore, noi venivamo da stagioni ottime ma soffrivamo la Corea come modalità di scherma. Per noi è stato bellissimo battere l’Ungheria in semifinale, soprattutto perché loro avevano in squadra Aron Szilagyi, tre volte consecutive campione olimpico nell’individuale.
Qual è l’insegnamento più grande che hai tratto in questi anni dai tuoi compagni di squadra?
Come insegnamento non saprei. La squadra che abbiamo avuto fino a Tokyo 2020, prima dei cambiamenti, era composta da quattro ragazzi con caratteri molto forti. Io ed Enrico Berrè siamo molto amici. In tutti questi anni in cui abbiamo condiviso i momenti di squadra ci siamo sempre spronati l’uno con l’altro e, in un certo senso, ci siamo vicendevolmente influenzati. Berrè che prima era serissimo è diventato più giocherellone, mentre prima stava pochissimo allo scherzo. A me piace sdrammatizzare e ridere, ma stando con lui sono cambiato e sono quasi diventato il più serioso tra i due. In generale la cosa bella è che, nonostante nell’individuale siamo sempre pronti a scontrarci alla morte, anche con Gigi Samele, poi il giorno dopo quando siamo in squadra assieme ci abbracciamo con trasporto e immediatamente remiamo tutti dalla stessa parte.
Cosa ne pensi della nomina di Arianna Errigo e Gianmarco Tamberi a portabandiera?
Sono due persone che meritano questa nomina. Arianna è una grande, la conosco da anni, è una grande persona e una grande atleta. Ho avuto modo di apprezzare le sue qualità umane nei ritiri condivisi della Federazione e ritengo che non ci siano altri nel nostro movimento che meritino questa nomina tanto quanto lei. Conosco anche Gianmarco Tamberi e sono contento per lui. L’Italia in generale ha grandi atleti, penso a Marcell Jacobs che alla fine ha vinto la medaglia più iconica in assoluto alle Olimpiadi. Poi un po’ mi dispiace per Gregorio (Paltrinieri, ndr). Tamberi e Gregorio tra l’altro sono molto amici, quindi se non vogliono farsi un torto l’uno con l’altro allora mi offro io come portabandiera!
Come hai vissuto, da medagliato olimpico, le critiche che in generale sono state mosse al movimento della scherma all’indomani di Tokyo 2020?
A tal proposito mi piace partire da un esempio scolastico. I genitori di un ragazzo che prende sempre 7 a scuola tendono spesso a dirgli che può fare di più. Mentre se un ragazzo prende sempre 3 o 4 e una volta prende 6 allora i genitori lo portano a cena fuori per premiarlo. Ebbene, noi della scherma siamo quelli che hanno sempre ben abituato il pubblico. Il fioretto forse non ha brillato a Tokyo, però il movimento è sempre stato d’eccellenza. Una flessione è naturale. Le critiche più feroci sono arrivate a coloro che erano attesi per l’oro, come il Dream Team del fioretto. Non dobbiamo però dimenticarci che le fiorettiste hanno conquistato un bronzo olimpico a squadre, che comunque ha un suo valore e non è mai, per nulla, scontato. Secondo me, alla fine, parliamo del nulla. Inoltre, la scherma è uno sport nel quale se si parte male all’inizio è poi molto difficile recuperare, anche se ovviamente non impossibile.
Che cosa non deve mancare nel bagaglio tecnico di uno sciabolatore vincente?
Sicuramente non deve mancare la lucidità. Nella sciabola in cinque minuti si decide la vittoria o la sconfitta. Una distrazione di venti secondi può portare a perdere subito quattro o cinque punti. Inoltre, occorre essere esplosivi nel gesto atletico, in quanto spesso bisogna fare uno sforzo fisico consistente in pochissimo tempo.
Come giudichi fin qui la tua stagione agonistica?
Questa è stata una stagione caratterizzata da diverse variazioni. Ho iniziato con una finale a otto nella prima gara dell’anno. Successivamente sono calato un po’, riprendendomi però a Budapest dove sono andato a medaglia. Budapest poi è una città ricchissima di storia per la sciabola e rivincere una medaglia lì, a distanza di anni dalla prima volta, è stato bellissimo.
Quali sono le tue migliori qualità che porti in pedana?
Per prima cosa la spensieratezza. Io non mi faccio mai troppi problemi. Traggo il meglio da ogni singola cosa. Poi ci aggiungo l’esuberanza fisica che è un bene ma che alcune volte devo necessariamente ridimensionare. Alcune volte ce ne metto troppa rispetto a certe stoccate in cui non è necessario. Su questo aspetto lavoro molto con il mister. Comunque è una grande qualità nei momenti difficili.
Che cosa ti attendi dall’Olimpiade di Parigi?
Mi attendo di esprimermi nel migliore dei modi. Sono consapevole che se riuscirò a tirare come so posso fare grandi cose. Spero di fare del mio meglio, questo sicuramente. L’importante è riuscire ad esprimermi come spesso ho fatto vedere, mettendo da parte tutte le variabili esterne.
Foto di copertina: Luca Curatoli (profilo Facebook ufficiale dell’atleta)