Ci sono momenti in cui il destino, quella forza ineluttabile che decide tutto, ci restituisce quello che ci aveva tolto negli anni, mesi ed anche giorni precedenti, e Abdon Pamich ha vissuto sicuramente uno di questi momenti a Tokyo, in quello che è stato l’apice di una carriera da fuoriclasse e ricca di numeri fuori dal comune.
La storia di Abdon merita di essere raccontata sia sul piano sportivo che su quello personale, perché per narrare un grande successo, non si può non partire da quelle motivazioni che ti hanno spinto a non mollare mai, nemmeno in quel momento nel quale tutto sembrava essere andato storto, e la nuova beffa era dietro l’angolo. Il giovane Pamich nasce a Fiume, l’attuale Rijeka in Croazia, il 3 ottobre del 1933, e proprio negli anni in cui ora si pensa solo a giocare e divertirsi, viene costretto ad abbandonare la propria città e a iniziare la vita da profugo, stazionando nei campi allestiti dallo Stato italiano: il futuro olimpionico si riunirà al padre a Genova e da qui, dopo le mille difficoltà vissute nel momento in cui si era trovato senza una casa e senza la sua città natale, partirà la sua scalata al gotha della marcia. Una scalata che passa anche per qualche delusione.
In mezzo ai due ori e un argento europei, ai tre ori ai Giochi del Mediterraneo e ai 42 (avete letto bene, quarantadue) titoli nazionali tra 10, 20 e 50 km di marcia, con tanto di record del mondo della specialità stabilito nel 1961, c’è anche quella 50 km che probabilmente Abdon non dimenticherà mai, nonostante lo sfavillante successo del 1964: è la gara di casa, quella dei Giochi di Roma tanto attesi e preparati per vincere davanti al pubblico di un’Italia in rinascita, ma soprattutto la gara che lo vedrà chiudere solo 3° e fallire la sua prima chance da titolo (dopo il 4° posto dell’esordio a cinque cerchi a Melbourne).
Nel 1960 infatti fu l’eccessivo caldo, evitato dall’inglese Thompson grazie ad un allenamento specifico nel quale si chiudeva in una stanza chiusa ad oltre 40° per abituarsi alle possibili condizioni di gara, a frenare la rincorsa all’oro di Pamich, arrivato appunto sul podio e stremato sul traguardo (a due minuti dal vincitore e nuovo recordman olimpico): a Tokyo, invece, ecco la seconda chance concessa dal destino.
L’atleta nativo di Fiume si era preparato specificatamente per questa gara, togliendosi anche lo sfizio del record mondiale realizzato a Roma, come ad esorcizzare quella delusione olimpica, e nel 1964 arrivava con gli assoluti favori del pronostico e con una grandissima condizione: una condizione mostrata subito nell’avvio della ”sua” 50 km, nella quale sostanzialmente aveva preso il largo, prima di quel fattaccio che poteva nuovamente sottrarlo a quella gloria tanto inseguita a furia di allenamenti e sacrifici.
Poteva una crisi gastrica, dovuta a un tè freddo che aveva scombussolato il suo fisico proprio nel momento decisivo, far mancare nuovamente a Pamich l’appuntamento con l’oro? No, non poteva, e così l’azzurro escogitò uno stratagemma che resterà nella storia delle Olimpiadi, anche se al momento non c’era l’attenzione mediatica e visiva che è presente ai giorni nostri, quando difficilmente episodi del genere sfuggirebbero all’occhio ”pornografico” delle telecamere piazzate in ogni punto del percorso: la soluzione per vincere era solo una, ”liberarsi” dalla crisi e farlo nel minor tempo possibile, e così Abdon decise di fermarsi e nascondersi dietro una siepe per togliersi quel ”peso” che, vuoi per i dolori, vuoi per il malessere fisico, stava rischiando di fargli perdere la medaglia più ambita.
Uno stop and go che lo portò poi a volare in una fantastica rimonta dal km 38 in poi, e battere tutti gli avversari, da ultimo l’inglese Nihill, arrivato secondo a 19 secondi e davvero stremato all’arrivo: è stato un oro sudato e conquistato con la grinta e con uno sforzo enorme, quello di Abdon Pamich, ma soprattutto il coronamento di una gara mostruosa, che lo vide ritoccare di 14 minuti il record olimpico, portato al tempo di 4h11’12” (un tempo altissimo, se paragonato a quelli attuali), che poteva essere molto più basso, senza quello stop forzato e necessario.
Pamich in seguito si è tolto anche lo sfizio di sfilare da portabandiera nella sfortunata Olimpiade di Monaco 1972, ma il suo nome resterà per sempre legato a quella straordinaria gara e a quell’oro che ha rappresentato la perfetta rivincita nei confronti della sfortuna, ma anche di quella vita che l’aveva allontanato dal suo luogo d’origine: una rivincita che deve qualcosa al destino e a quella seconda chance, ma soprattutto tantissimo a quella grinta formidabile mostrata da Abdon Pamich, il primo signore della marcia italiana, un esempio per tutti gli atleti che parteciperanno alle Olimpiadi di Rio 2016.
Alla faccia di quel tè freddo che poteva rovinare tutto…