Azzurri di Gloria ha avuto il piacere di intervistare Alberto Cisolla, schiacciatore della Atlantide Pallavolo Brescia e leggenda della pallavolo italiana.

Alberto Cisolla (fonte pagina ufficiale Atlantide Pallavolo Brescia)

ALBERTO CISOLLA SI RACCONTA AD AZZURRI DI GLORIA

<<Il mio compleanno? L’ho festeggiato con amici e famiglia. In fondo, i 40 anni sono un bel traguardo. A volte penso anche al fatto che i figli dei miei amici giochino con me… Diciamo che fa un certo effetto>>. Alberto Cisolla sorride ripensando al tempo trascorso, ma non perde l’amore per la pallavolo. Una passione nata in giovane età e tuttora avvertibile dal suo tono di voce e dall’emozione con cui parla del suo lavoro. E non importa se solamente una settimana fa soffiava le sue 40 candeline. Lo schiacciatore trevigiano si diverte ancora a giocare, trascinando l’Atlantide Pallavolo Brescia, la squadra che lo ha accolto nel 2015, dopo tante stagioni qua e là, tra Ortona e Vibo Valentia, tra Latina e Roma, con parentesi alla Lube Macerata ed all’estero con l’Al Muharraq. Un lungo girovagare in seguito alla chiusura del Volley Treviso, la formazione che lo ha lanciato in A1 e lo ha consacrato come uno dei miti della pallavolo italiana ed internazionale. Lo attesta il suo palmares: 7 scudetti, 4 Coppe Italia, 7 Supercoppe Italiane, 3 Champions League, 2 Coppe CEV ed una Supercoppa Europea. Soddisfazioni a cui si sommano i premi individuali del 2005: migliori giocatore di A1 ed MVP del Campionato Europeo, il suo apice con la maglia azzurra della Nazionale italiana. Ora Alberto Cisolla racconta ad Azzurri di Gloria le sue sensazioni sulla nuova stagione in A2 ed i ricordi sulla sua folgorante carriera. Un’intervista resa possibile anche grazie alla disponibilità della società Atlantide Pallavolo Brescia.

Alberto, quali sono le aspettative sulla nuova stagione?

<< Spero di finirla in piedi sano e salvo. Scherzi a parte, l’obiettivo è la salvezza e cercheremo di raggiungerla il prima possibile. Questo è il traguardo prefissato dalla società, anche se ogni anno noi facciamo passi in avanti. Cresciamo come organico sotto gli aspetti societari e nello sviluppo del settore giovanile. È un campionato molto difficile, ogni anno la concorrenza è sempre più agguerrita. Comunque l’obiettivo rimane la salvezza. E poi ci sono altri aspetti importanti come la crescita dei giovani. Noi aderiamo al progetto giovanile della Federazione. La società è molto radicata nella provincia. Ci teniamo a questa particolarità. Stiamo lanciando tanti giovani bresciani. C’è una forte volontà di svilupparsi e di mantenere questi importanti traguardi>>.

Perché hai scelto proprio Brescia e la Atlantide Pallavolo?

<<Sono di Salò ed abito qui fisso da 5 anni, anche sono più di 12 anni che bazzico questa zona. Aggiungiamo che mia moglie è di Salò. Dunque ci sono diversi aspetti che si intrecciano. Avevo già avuto contatti con la società. Quando si sono incastrate alcune cose al momento giusto, è nato il sodalizio. Mi è piaciuta l’idea di giocare in Serie A2 a Brescia, portando la mia esperienza. È stata una scelta di vita, ma non è stata difficile. Insieme a mia moglie, abbiamo abitato sempre a Treviso, anche se avevamo in mente di vivere definitivamente sul lago. Dunque il trasferimento non è stato così difficile>>.

Ci sono somiglianze con qualche formazione in cui ha giocato in precedenza?

<<Onestamente no e lo dico assolutamente con il massimo rispetto per la società e per gli sforzi che fa. Purtroppo o per fortuna, i miei vent’anni precedenti sono stati di un altro livello. È difficile trovare somiglianze con altri club. A Brescia, cerchiamo di imitare l’essere radicati in città. Questo, in parte, è simile a Treviso, anche se il Signor Benetton fece investimenti che non sono paragonabili a quelli della mia attuale società. In comune, c’è comunque l’idea di base di dare tanto alla città sotto vari aspetti, cercando di mantenere una identità precisa. Ovviamente c’è una diversità nel tipo di imprenditore e nel livello tecnico. È difficile fare paragoni tra le due situazioni, anche perché erano altri tempi ed il mondo della pallavolo è cambiato tanto>>.

Hai fatto parte di una delle squadre più forti di sempre, ossia Treviso. Qual è stato il segreto di quel team?

<<Ci si abitua a vincere. La storia della mancanza di fame è una delle più grandi falsità sportive. Al massimo può andare bene a chi cerca un alibi. Posso garantire che in tutti gli sport nessun atleta professionista si accontenta o non ha più voglia di vincere. Fai questo lavoro proprio per vincere. È vero che siamo fortunati: facciamo di lavoro un gioco. Ho avuto la grandissima fortuna di fare della mia passione la professione, ma ti assicuro che si fa fatica a fare 25 anni di carriera dal punto di vista fisico e psicologico. Non puoi concedere niente, non puoi mai staccare per un momento, nemmeno in allenamento. Anche a livello famigliare non è facile: è vero, giri il mondo, ma non è semplice fare un anno in una città ed un altro anno in una nuova sede. Dall’esterno, sembra tutto bello, ma è complicato. Anche per questo, la fame di vittorie è la cosa più naturale per un atleta. Per quanto riguarda il segreto di Treviso, non era nulla di particolarmente speciale. Semplicemente, tutti, dal primo all’ultimo, hanno sempre remato dalla stessa parte. Ogni singola cosa è sempre stata fatta con lo scopo di migliorare la situazione. Sia le persone appartenenti al livello dirigenziale, che quelle appartenenti al livello sportivo, avevano doti molto importanti, specialmente nella scelta dei giocatori. Sono qualità che tutti nel loro ruolo avevano. Si seminava, si credeva nei progetti e si ottenevano i risultati. Si diceva che c’era Benetton e che, quindi, qualsiasi dirigente potesse prendere i giocatori più forti al mondo. È un luogo comune dello sport, secondo il quale, acquistando i migliori atleti al mondo, questi possono incastrarsi senza problemi. Ovviamente non è così e Treviso è stato un esempio di gestione. Dopo l’era di Bernardi, nel 2001, la Benetton ha fatto un ricambio generazionale enorme. Oltre a me, sono arrivati Vermiglio, Fei, Tencati, Farina, prendendo il posto dei campionissimi che ci hanno preceduto. Non era un cambio facile ed in molti hanno criticato quella scelta. Eppure, al primo anno, abbiamo vinto lo scudetto immediatamente. Certo, noi eravamo giocatori affermati, però era un cambio generazionale importante. A ben guardare, gran parte di quel sestetto veniva dall’Under 14. Avevamo fatto tutti insieme la trafila delle giovanili. Al contempo, quei giocatori erano divenuti nello stesso periodo anche l’ossatura importante della Nazionale. Ha scelto bene la società che ha cresciuto 5-6 giovani nel proprio settore giovanile. Già da ragazzi abbiamo vinto tanto ed eravamo già affiatati.  Credere nel progetto, poi pienamente riuscito, è stato fondamentale. Con questo, voglio dire che non bastano solo i soldi. A Treviso, tutto il sistema funzionava alla perfezione. Guarda ora la stessa Treviso: non ha più la prima squadra, cura solo il settore giovanile. A giugno si sono svolte le finali under 19. L’unica squadra presente senza avere una formazione in Serie A1 o A2 era proprio il club trevigiano. E proprio i veneti hanno conquistato lo scudetto. Anche ora che non c’è un budget stellare, continuano a sfornare fior di giocatori ed a vincere . Questo avviene perché sono bravi ad andare a scovare ragazzi in provincia. Un bravo a Zanin, responsabile del settore giovanile. Se i risultati ancora oggi arrivano, non è un caso>>.

Com’è stato gestire la pressione di chi deve rimpiazzare campionissimi come Bernardi?

<<Precisiamo: non è che noi fossimo giovani sbarbati. Eravamo giovani perché avevamo 21-22-23 anni, ma abbiamo esordito nel 2000. Nel 2001 eravamo già protagonisti in World League. Detto questo, è ovvio che prendere l’eredità di personaggi così forti ed importanti non è semplice. Stiamo parlando dei protagonisti della Nazionale della Generazione dei Fenomeni di Julio Velasco a cui sono molto grato. Non posso dire che abbiano inventato la pallavolo in Italia, ma quel gruppo ha creato ciò che i successori si sono goduti e si stanno godendo tutt’ora. Dal Mondiale 1990 in poi c’è stato un cambiamento epocale. Non smetterò mai di ringraziarli per ciò che ho ed abbiamo ereditato. Sono ancora oggi dei mostri sacri per me intoccabili ed inarrivabili. In tante occasioni abbiamo giocato insieme, talvolta contro. Sono ancora loro i fondatori della nuova era della pallavolo. Sostituirli non è stato facile. Diciamo che ci è andato tutto bene vincendo subito. Se avessimo perso tre o quattro partite di fila, dopo il loro addio, saremmo stati travolti dalle critiche e le cose non sarebbero andate così>>.

Tra i campioni di Velasco, ce n’era uno che era il tuo idolo, il tuo modello?

<<Io sono sempre stato innamorato di Lorenzo Bernardi un po’ perché è miglior giocatore del secolo e degli ultimi trent’anni, un po’ perché ho avuto la fortuna di vederlo allenarsi a 13 anni. A Treviso c’erano tutti i big della pallavolo ed io avevo la fortuna di allenarmi con questi personaggi. Ho avuto anche il privilegio di averlo come compagno di stanza, oltre che di squadra. Ho realizzato tanti piccoli sogni. Credo che la mia più grande fortuna sia stata la possibilità di giocare con i più grandi pallavolisti al mondo>>.

Sicuramente, allenarsi fianco a fianco con campionissimi del volley permette di crescere con un grande bagaglio tecnico.

<<Certo, Bernardi era un esempio anche sotto questo punto di vista. Pochi rimangono in auge per così tanto tempo. Lui era come Federer nel tennis. Questi sportivi hanno un talento pazzesco. A Samuele Papi dico sempre che è uscito dalla pancia di mamma con le braccia pronte per fare il bagher da tanto che quel fondamentale gli riusciva in modo naturale. Detto ciò, bisogna anche sottolineare come essi siano i primi a fare 100 ricezioni e gli ultimi ad andarsene al termine dell’allenamento. Il talento deve essere abbinato ad una mentalità corretta. Certo, serve anche una buona dose di fortuna, ma l’aspetto psicologico conta moltissimo>>.

Ultimamente hanno lasciato la pallavolo Hristo Zlatanov, Samuele Papi e Luca Tencati. Che effetto fa vedere tanti amici e compagni ritirati?

<<Ci ridiamo e ci scherziamo su. A volte, ci troviamo fuori dalla pallavolo. È un lavoro che si fa per tanti anni e, quando si smette, c’è tristezza e dispiacere. Mancherà l’ambiente, una volta smesso con la pallavolo. Comunque, io ho intenzione di continuare. Lo avevo detto a Samu Papi: “Non posso smettere prima di te”. In generale, ognuno fa i conti con sé stesso. Io ho la realtà giusta, la mia squadra di Brescia. Finché mi diverto e non faccio brutte figure, posso continuare. Secondo me, bisogna avere l’intelligenza di ammettere il proprio declino fisico. Se io pretendessi di fare quello che facevo nel 2005, quando sono stato eletto miglior giocatore d’Europa, sarei stupido e non mi godrei quello che sto facendo ora. È un lavoro molto bello, ma bisogna inquadrarsi e mettersi nella realtà giusta. Prima lottavo per uno scudetto, ora per una salvezza; tuttavia, alla fine, il tipo di lavoro alla base è lo stesso. L’importante è riconoscere i propri limiti>>.

Quanto è cambiata la pallavolo in questi anni?

<<Sicuramente, il movimento è cambiato tanto, ma non lo vedo in crisi. Non bisogna ragionare dal Trentino all’Emilia, come si faceva 25 anni fa, ma pensare a livello globale. Del resto, la pallavolo è seguita in tutto il mondo. Questo è dovuto anche alla crescita di nazioni che ci hanno copiato. Credo che il movimento sia cambiato molto, migliorando complessivamente. In generale, l’Italia è ancora protagonista: i risultati a livello internazionale di Trento, Civitanova e Modena lo dimostrano. Dal punto di vista organizzativo siamo un esempio. La pallavolo è cambiata tanto anche per via di una componente tecnica importante: ora i giocatori sono molto bravi nei fondamentali, ma sono anche atleti pazzeschi. La differenza rispetto a qualche tempo fa sta proprio qui. Prima c’era il pallavolista più tecnico e quello con le doti fisiche prestanti per rimediare ad alcune lacune. Con i nuovi metodi di allenamento, questa selezione si è assottigliata o addirittura annullata. Ci sono giocatori come Zaytsev, Juantorena, Simon o Leon, che saltano, attaccano e ricevono alla perfezione. Non c’è niente di male, è una tendenza che si sta verificando in tutti gli sport. Nella pallavolo, per la tipologia di gioco, la componente tecnica mantiene un ruolo molto importante>>.

Zlatanov affermava che adesso manca molta tecnica, specialmente tra i centrali. Ti trovi d’accordo?

<<Sì, diciamo che il ruolo del centro è l’unico che abbia registrato un peggioramento. Ciò è dovuto all’introduzione del libero, che ha reso il centrale un ruolo specifico. Nelle altre zone del campo, si cerca di unire l’aspetto atletico alla tecnica. Questo non è avvenuto tra i centrali. Non dico che siano meno forti, ma è diventato un ruolo specializzato. È una scelta normale, anche perché ora la palla viaggia molto di più. È vero che Kyrali una volta era completo in ogni fondamentale, ma è altrettanto corretto sottolineare la diversità della velocità di gioco e della forza al servizio. Anche per questo, bisogna essere tecnici ed allenati per saper gestire palloni sempre più rapidi nel miglior modo possibile. Ovviamente ci sono alcune eccezioni: ad esempio Sergio o Grebennikov sarebbero da vietare ai bambini che iniziano a giocare a pallavolo perché fanno cose difficili, ma non propriamente tecniche. Sono bravi loro perché si allenano nel coniugare riflessi, esplosività e fondamentali. Però, per chi  si avvicina a questo sport, non è consigliabile imitarli…>>.

Parliamo di Nazionale. Quali sono i tuoi ricordi in azzurro?

<<Sicuramente porto con me il ricordo delle due Olimpiadi perché i Giochi olimpici sono difficili da descrivere. Si pensa che la medaglia più importante sia l’oro ed è vero, ma solo in parte. Se fai un Mondiale, quel tipo di campionato è più bello perché c’è solo la pallavolo. Qualsiasi cosa tu faccia, sei al centro dell’attenzione. All’Olimpiade sei uno fra i tanti atleti, specialmente nelle gare iniziali. A volte mi è capitato di trovare 50 persone ad assistere alle nostre partite. In quei casi, ti rendi conto di vivere lo spirito dello sport nella sua essenza. Vivi nel villaggio olimpico con giocatori ed atleti che lottano per quell’obiettivo da 4 anni. E per raggiungerlo si fanno un gran mazzo. Siamo tutti sullo stesso piano, non ci sono soldi o sponsor, non ci sono appassionati. Per questo, delle Olimpiadi ho un ricordo bello e puro. Dal punto di vista delle vittorie, c’è l’Europeo 2005 a Roma. Resta speciale per come è maturato perché non eravamo i favoriti. Avevamo disputato una brutta World League, finendo oltre il quinto posto. E poi c’era grande tensione perché era un torneo fatto in casa. E si sa che quando organizzi una manifestazione così importante, devi arrivare fino all’ultimo sabato. Inoltre, il livello di gioco era pazzesco con Serbia, Russia, Spagna e Francia nel ruolo di favorite. Dunque c’era molto equilibrio. Siamo partiti molti bene vincendo tutte le partite del girone, tranne quella con la Russia. Ci siamo qualificati come seconda del nostro gruppo. Comunque, siamo stati bravi a proseguire la nostra marcia. La finale è stata indimenticabile: abbiamo ritrovato la Russia e siamo andati sotto 2 set a 1 per loro. Vincere così, in rimonta, con un palazzetto che è stato realmente il settimo uomo in campo è stato unico. E poi ho vinto il premio di miglior giocatore d’Europa. Sembrava un film. Veramente non riesco a pensare a qualcosa di meglio>>.

A proposito di Olimpiadi, hai qualche rimpianto per com’è andata la finale di Atene 2004?

<<Lì per lì c’è stato un rimpianto enorme perché ci avevamo creduto. Ricordo le lacrime di Papi e Giani, che vedevano l’ultima occasione di vincere l’oro. Certamente considerare una medaglia d’argento un fallimento è eccessivo. Abbiamo perso 3-1 una bellissima finale contro un Brasile straordinario. Considerare quella sconfitta un rimpianto non è giusto. Ricordo i fotografi incavolati perché non c’era un sorriso nelle nostre foto. In pochi accennavano un sorriso. Dopo, con il senno di poi, ho pensato che è stato un successo anche quell’argento. Secondo me, è un momento da catalogare tra i positivi della mia carriera. Certamente, manca la medaglia d’oro>>.

Si potrebbe fare un paragone tra la sua Italia e quella attuale?

<<Il paragone ci può stare sicuramente, è normale. Ci sta tutto. I risultati, secondo me, ci sono. Le qualità ci sono. La mia idea è che da un anno all’altro, ogni estate, vengono fatti troppi cambiamenti. Inoltre, sarebbero sufficienti due mesi di attività con la Nazionale, non una stagione intera. È giusto dare continuità ad un gruppo a lungo termine, almeno nel quadriennio olimpico. Non credo sia vantaggioso fare un anno con una squadra ed un anno con un’altra. Questa è solamente la mia idea. Penso che in questo modo si possano gettare le basi e trovare riferimenti validi, sfruttando al meglio le qualità degli interpreti presenti attualmente nel giro della Nazionale. Poi i valori ci sono e sono importanti. Ci sono giocatori come Lanza e Giannelli dal talento indiscutibile. Inoltre, quest’anno mancavano Juantorena e Zaytsev, fermi per motivi vari… Diciamo che, in occasione del caso Mizuno-Adidas, il movimento non ha fatto una bella figura. Si poteva cercare un punto d’incontro tra le parti. Comunque, sono sicuro che in futuro la squadra si rifarà>>.

Federico Mariani
Nato a Cremona il 31 maggio 1992, laureato in Lettere Moderne, presso l'Università di Pavia. Tra le mie passioni, ci sono sport e scrittura. Seguo in particolare ciclismo e pallavolo.

    Potrebbero anche piacerti...

    Lascia un commento

    Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

    Altro in:Interviste