Scherma in carrozzina. La storia di Bebe Vio: il “primo” e il “secondo tempo” dell’azzurra e la sua sfida all’impossibile. «Perché se qualcosa sembra impossibile, allora si può fare».
Bebe Vio: storia del perché se qualcosa sembra impossibile, allora si può fare
«No Bebe, è impossibile! No Bebe, non puoi portarla tu!».
Estate 1999. In cima alle scale di una casa nell’isola d’Elba, dove la famiglia Vio-Grandis è solita trascorrere le vacanze, una bambina di due anni è fermamente decisa ad aiutare la propria madre. La signora Teresa, infatti, sta preparando i bagagli per tornare a casa, a Mogliano Veneto, e la piccola Beatrice sta impugnando una valigia grande il doppio di lei. L’obiettivo è semplice: aiutare la mamma, portando giù per le scale quell’enorme borsa. Perché, dice la bimba alla madre: «Io posso fare tutto quello che voglio fare!». La missione verra completata, ma a raggiungere il piano terra, per prima, sarà Bebe.
“Bebe”, sì, perché Beatrice Maria Adelaide Marzia, da sempre, è per tutti Bebe. E in un certo senso la storia di Bebe è chiara sin da quella scalinata, sin da subito. Ma quello che la famiglia Vio-Grandis non può ancora sapere è che la storia di quella ragazzina, che a due anni è già disposta ad affrontare “l’impossibile”, avendo molto chiaro, sin da subito, che se qualcosa sembra impossibile allora si può fare, avrà un primo e un secondo tempo.
Il primo tempo di Bebe: «Ma cosa lo faccio a fare, se non si vince niente?»
Il “primo tempo” di Bebe, così lo chiama lei, inizia il 4 marzo 1997. Quando a Venezia nasce la piccola Beatrice, la seconda figlia di Teresa e Ruggero, dopo Nicolò. Cui, qualche anno più tardi, si aggregherà anche Maria Sole.
Curiosa e testarda, come tutti i bambini. Vivace e indipendente, come la mamma. E, soprattutto, estremamente competitiva, come il papà. Lo sport, per Bebe, è sin da subito un prolungamento della sua identità. Beatrice ha solo quattro anni quando, in compagnia di un’amica, incontra la ginnastica artistica. È l’unica della classe a rotolare, come un salame, quando c’è da fare una capriola. Eppure si diverte molto. Addirittura, Bebe riesce persino a vincere una gara interna a metà corso. A quel punto non resta che scaldare i motori per il saggio di fine anno. L’iniziale entusiasmo, tuttavia, sfuma subitaneamente, dopo una conversazione con la madre. «Mamma, è un’altra gara?». «No, Bebe. È solo per far vedere a mamma e papà quello che avete imparato quest’anno». «Ma allora cosa lo faccio a fare, se tanto non si vince niente?». No. La ginnastica non fa per lei. E, infatti, l’anno dopo, cambia sport.
La palestra delle scuole medie di Mogliano Veneto è un grosso stabile tagliato da un corridoio centrale che separa due differenti stanze. Beatrice prende la porta di destra: quella della palestra dove si fa pallavolo. Non è che Bebe sappia molto di questo sport, semplicemente conosce l’unica cosa che le interessa: a pallavolo si fanno le partite, le partite sono delle gare, quindi nella pallavolo si vince qualcosa.
La prima lezione va bene, ma non benissimo. Perché Beatrice scappa, annoiata, e fugge tornando verso l’entrata, solca quel lungo corridoio e prende la porta di sinistra, quella dell’altra palestra. E qui Beatrice si ferma, cosa rara: si siede e osserva. Davanti a lei c’è un plotone di Zorro di bianco vestiti, i rumori metallici delle lame e delle cocce, il bip dei segnapunti: una favola, reale, dinnanzi cui rimanere incantati. «Ti piace?». Le domanda un omone, con la barba bianca. «Ti va di provare? Vieni settimana prossima».
Beatrice è entrata nella palestra di Andrea Cipressa e ha appena conosciuto il suo primo maestro, Gastone Gal. La scherma è entrata a far parte della sua vita. Una delle tre esse della sua vita: la Scherma, a cinque anni; la Scuola, a sei; e gli Scout, a otto.
La sua storia è già scritta, ma conta anche di un secondo tempo.
«Goditi quello che hai, perché la vita è una figata!»: il secondo tempo di Bebe
È il 19 novembre 2008. Un mercoledì: la sera degli allenamenti di scherma. Bebe ha mal di testa. Non sembra nulla di preoccupante: la sorellina Maria Sole ha appena avuto un’influenza. La mattina dopo Beatrice rimane a casa da scuola, per riposare, ma le sue condizioni non migliorando. Anzi. Bebe ha la febbre e si chiude in bagno a vomitare. E sta tanto male da non riuscire ad aprire la porta. E quando ci riesce, sua madre nota una strana macchia in fronte.
«Ma ti hanno dato una fiorettata in testa?», le chiede. «No, mamma, guarda che porto la maschera». Le macchie, in un momento, aumentano: prima una sul cuore, le altre si susseguono e, in breve tempo, la coprono completamente. Il suo respiro è pesante, faticoso e irregolare. Molte le difficoltà a mantenere l’equilibrio. Una prima diagnosi dice “broncopolmonite”, ma la signora Teresa non si fida e porta Bebe all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso. Da qui, il trasferimento all’ospedale di Padova è immediato, perché quelle non sono “macchie”, ma trombi: non è polmonite, è meningite fulminante da meningococco C.
La mattina del 20 novembre 2008 Bebe Vio viene ricoverata d’urgenza all’ospedale di Padova. Vi uscirà dopo cento quattro giorni: una settimana di coma farmacologico, quarantadue giorni di camera iperbarica, settimane di terapia intensiva e numerosi interventi, tra amputazioni, trapianti e medicazioni.
È la mattina del 3 marzo 2009: cento quattro giorni dopo, può iniziare il secondo tempo di Bebe Vio.
Beatrice inizia il proprio secondo tempo da una delle sue “esse”: la scuola. Anche se a giorni alterni, in ragione di una lunga e dolorosa fisioterapia. Ma a provocarle le maggiori sofferenze sono, da marzo a giugno, le medicazioni, da fare un giorno sì e uno no. «Basta!», grida. «Non ne posso più!», strilla. «Voglio morire: mi butto giù dal letto di testa e mi suicido!», urla. Ma a sentirla, quel giorno, c’è papà Ruggero: «Ma smettila! E goditi quello che hai, perché la vita è una figata!».
A Bebe è subito chiaro, da quel momento, che la sua vita, e lei stessa, non sono la malattia che ha avuto. Capirlo è semplice: il difficile è farlo capire agli altri. Spiegare, ad esempio, alla direttrice di un istituito d’arte, che le chiede «ma non è sarebbe meglio un bel liceo?», quello che le disse sua madre, una volta uscita dall’ospedale: «L’arte non è nelle mani, è nella testa». Proprio come lo scoutismo, un’altra delle sue esse: “Sono uscita dall’ospedale? Sì. Oggi è domenica? Sì. Oggi c’è l’uscita scout? Sì. Io sono una scout? Sì. E allora vado all’uscita”. Per giocare a palla prigioniera, dopotutto, basta tenersi alla schiena e alla vita del capo-scout con i monconi, perché l’importante è conquistare il campo avversario.
L’ultima esse, la scherma, dopo scuola e scout, è consequenziale. Perché il primo amore non si scorda mai.
«Secondo colpo di fulmine. E ancora peggio del primo»
Beatrice non può più aspettare. La voglia di tornare in pedana è troppo forte. E lei, del suo sogno, ne parla a tutti. A chiunque incontri. E racconta di questa sua voglia di tornare in pedana, un giorno d’estate del 2009, mentre si trova al Centro Protesi di Budrio, dove impara a usare le protesi di gambe e braccia, a Melissa Milani, che siede in un banchetto del CIP, il Comitato Paralimpico Italiana. Una, due, tre, molte volte. Per Bebe, infatti, è solo questione di tempo: non appena padroneggerà al meglio le “nuove” gambe tornerà a tirare, si riprenderà quella quinta posizione nel ranking italiano giovanile che aveva abbandonato quando era entrata in ospedale e andrà alle Olimpiadi, il suo sogno da quando aveva cinque anni.
Se non che Melissa le parla, sì, di scherma, ma di scherma in carrozzina. «Non mi interessa, è roba da disabili», le risponde Bebe: «Datemi le gambe e vedrete!».
Il richiamo della scherma, tuttavia, dopo un anno di lontananza dalle pedane, è troppo forte. Così, a un mese di distanza da quella chiacchierata, pur reticente, Beatrice decide di partecipare a una gita alla scuola di scherma di Zinella di San Lazzaro, organizzata proprio da Melissa, uno degli ultimi venerdì di luglio. Carrozzina, guanto sulla protesi, fioretto di plastica con scotch sul guanto: sei incontri di fila, braccio insanguinato, e tanta felicità. «Secondo colpo di fulmine. E ancora peggio del primo».
Perché «nella scherma in piedi, quando sei in difficoltà, o non sai che pesci pigliare, puoi indietreggiare. In carrozzina non puoi fuggire. Sei bloccato, la distanza fra te e l’avversario è fissa. Quindi, la morale è: se non puoi scappare, non puoi avere paura».
Superate le proprie reticenze, però, Bebe deve oltrepassare le altrui. In particolare, quelle di Fabio Giovannini, allora coach della Nazionale paralimpica di scherma, cui Melissa Milani parlò di Beatrice. «É impossibile», perché per tirare di scherma servono quattro cose: tre dita, pollice, indice e medio a sorreggere il fioretto, e il polso. Non è un’opinione. Melissa, tuttavia, con tenacia lo convince. A fare il resto sono Bebe, con la sua volontà, e l’Arte Ortopedica di Budrio, che insieme a papà Ruggero progettano una protesi su cui è possibile l’innesto del fioretto. Per la prima volta, una persona senza mani può tirare di scherma. Perché, ancora una volta, «se qualcosa sembra impossibile, allora si può fare».
«Scusa, vado che ho da fare»: i trionfi di Rio de Janeiro 2016
Come prosegua il secondo tempo di Bebe è noto. Tra la prima volta su una carrozzina da scherma e la prima gara trascorre un anno. E sempre nel 2010, a giugno, Beatrice partecipa ai primi Campionati italiani assoluti, a Foggia, chiudendo al secondo posto, dietro Loredana Trigilia. La prima stagione agonistica di Bebe inizia a settembre dello stesso anno e culmina con una medaglia d’oro ai Campionati italiani assoluti di Livorno 2011. Dopo qualche mese, il primo successo internazionale, ai Mondiali under-18 di Varsavia.
Ma la vittoria più importante arriva la sera del 16 settembre 2016. Carioca Arena Tre di Rio de Janerio. Loredana Trigilia, Andreea Mogos e la neo-campionessa olimpica del fioretto femminile categoria B, Beatrice Vio, in pedana. Italia contro Hong Kong: in palio il bronzo paralimpico della gara a squadre. Ultimo assalto: Vio contro Yu, 38-40 in favore di Hong Kong.
«Oddio, Lori, aiutami!» dice Beatrice, prima di andare in pedana, quasi implorando la capitana della squadra, nata quasi per gioco ma oro agli Europei di Strasburgo del 2014, alla prima uscita internazionale. «Bebe, tranquilla! Se perdiamo, va bene lo stesso». “Come va bene lo stesso?! No. No che non va bene lo stesso!” pensa Beatrice. Ma alla capitana si limita a rispondere: «Scusa, vado che ho da fare». Bebe lo capirà più tardi: Loredana ha appena messo a segno la più importante stoccata della gara. Non l’ha inferta ad una rivale, ma alla sua compagna, e amica, Beatrice. Dritta al suo orgoglio, alla sua determinazione, a quell’agonismo che l’ha portata lì, a Rio, a quell’Olimpiade che sognava quando aveva cinque anni. Finirà 45-44, per l’Italia.
La sua prima paralimpiade non è un punto d’arrivo, è solo l’inizio del secondo tempo di Bebe Vio. Tre ori mondiali individuali e due a squadre, con un bronzo. Tre titoli europei in singolar tenzone; due, con un argento, con le sue compagne. Un oro e un bronzo alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro 2016. E poi, lontano dalle pedane, l’associazione art4sport.
Perché, come le disse mamma Teresa, la scherma è lo sport di Bebe. «Parata e contro parata, botta e risposta, per vincere devi inventarti di continuo delle contromosse. Nella vita è lo stesso: c’è un problema, o trovi una soluzione o rinunci. E io, personalmente, mi diverto troppo per rinunciare».
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