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«Non pretendo che questo mi faccia diventare ricco, ma almeno che mi procuri un lavoro». A sentirla così, questa frase non fa molto effetto: sui giornali, da qualche anno, se ne leggono a centinaia. Giovani, studenti universitari, ricercatori: tutti sperano di aver compiuto il percorso migliore per poter ottenere un lavoro. E a pronunciare quella frase è stato proprio un ragazzo di 22 anni che, nonostante tutta la buona volontà, non è riuscito a trovare ancora un’occupazione che gli permetta di portare a casa uno stipendio decente. O meglio, non era ancora riuscito in quella che, ai suoi occhi, sembrava un’impresa titanica, impossibile: ancora più difficile di riuscire a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi. E sì, perché quel ragazzo minuto e con i folti capelli scuri pronunciò la frase incriminata dopo aver conquistato una vittoria nella finale olimpica di lotta greco-romana. Era il 1984 e quel ventiduenne si chiamava Vincenzo Maenza.

Le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 vengono ricordate principalmente per il boicottaggio dei Paesi filocomunisti, ad eccezione di Romania, Jugoslavia e Cina, e per l’impresa del velocista e lunghista americano Carl Lewis che vinse l’oro nei 100 e 200 metri, nella staffetta 4×100 e nel salto in lungo così come aveva fatto un altro grande atleta statunitense. Era stato infatti il leggendario Jesse Owens a Berlino, 48 anni prima, a fare incetta di medaglie d’oro in tutte le specialità alle quali aveva deciso di prendere parte.

Quell’edizione, però, non si può dimenticarlo, vide anche la vittoria del piccolo Vincenzo Maenza, alla sua seconda esperienza olimpica. A Mosca nel 1980 il lottatore azzurro, nato a Imola il 2 maggio 1962, era giunto settimo. Un risultato tutto sommato positivo per uno che mai si sarebbe aspettato di diventare un lottatore di fama mondiale. All’età di dieci anni, infatti, Maenza aiutava il padre, barbiere a Faenza, nel suo salone. Sembrava quindi che il futuro del ragazzo fosse segnato, ma un giorno uno dei clienti del babbo notò la sua incredibile agilità e gli propose di portarlo nella palestra dove lavorava come allenatore di lotta greco-romana. In quel preciso momento ebbe inizio una carriera che lo avrebbe condotto, in pochi anni, ad entrare nel giro della Nazionale, prendere parte alla sua prima Olimpiade (quella del 1980, appunto) e a conquistare un bronzo ai mondiali e un oro ai Giochi del Mediterraneo.

Insomma, quello che si presentò sul tappeto di Los Angeles, era un atleta che, nonostante la giovane età, poteva vantare un palmarès di tutto rispetto. Un ragazzo piccolo piccolo che il giornalista Eugenio Ferraris, su la Stampa Sera, descriveva così: “Lo chiamano Pollicino, per via della statura e del peso: un metro e sessanta (scarsi) per quarantotto chili giusti giusti. Un fascio di muscoli, agile e scattante”. Un vero e proprio fenomeno, si potrebbe aggiungere, capace di annientare nella finale olimpica il vice campione del mondo, il tedesco Markus Scherer, in appena un minuto e sessantanove secondi. Un lampo, se si considera che nella categoria fino ai 48 kg, i lottatori impiegano tutto il tempo a loro disposizione (sei minuti divisi in due riprese da tre primi ciascuna) per poter avere la meglio sull’avversario. Ma quel giorno Pollicino si trasformò in una vera e propria furia e conquistò l’oro. La cronaca del match venne fedelmente riportata da Ferraris: “L’arbitro ha assegnato all’italiano prima un punto per una presa; poi, in rapida successione, tre punti, quattro ed altri quattro per altrettante prese tecnicamente ineccepibili (e, tra l’altro, altamente spettacolari). Sul 12-0 il regolamento prevede che il combattimento sia sospeso, essendo lampante la superiorità dell’atleta in vantaggio”.

Si trattò quindi di una gara magistrale, ma questo non fece cambiare atteggiamento all’umile Maenza che, dopo essere corso ad abbracciare il suo allenatore, spiegò: “Ho una fidanzata, Roberta, e vorrei sposarla. Ma in queste condizioni non ci provo nemmeno. Non credo di chiedere la luna: voglio soltanto lavorare perché non posso obiettivamente continuare a lottare”. Pollicino, in effetti, sapeva che non sarebbe stato facile per lui trovare un’occupazione perché la lotta lo teneva occupato tutto il giorno. Gli allenamenti di questa specialità, infatti, impegnano l’atleta per cinque o sei ore al giorno, a queste si devono aggiungere la corsa, la dieta ferrea e, ovviamente, il riposo. Una vita, quindi, che dà poco tempo per potersi dedicare al lavoro.

Eppure i grandi sacrifici legati alla lotta daranno i loro frutti: dopo quella medaglia, infatti, Maenza continuerà a combattere e raccoglierà tantissimi titoli che lo faranno entrare di diritto nella storia di questo sport. Tra i tanti, sono due i podi che verranno conquistati da Pollicino dopo Los Angeles che devono essere assolutamente menzionati: il bis olimpico a Seul 1988 e l’argento a Barcellona 1992. Insomma, una carriera da vero “Azzurro di gloria”.

Federico Sanzovo
Neolaureato e aspirante giornalista, scrivo su carta dal 2008. Sono tra i fondatori di Azzurri di Gloria. Mi occupo di blogging, web writing e social media managing. Amo il web, ma il profumo della carta stampata...

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