Terminata la spedizione di Rio 2016, è giunta l’ora per noi di tirare le somme: alla luce di quelle che erano le aspettative di ogni singolo sport, i nostri atleti delle varie discipline hanno mantenuto le promesse? Ci sono state delusioni o sorprese?
Iniziamo da quello che una volta era definita “la nobile arte”, ma che ormai da diversi anni ha perso il suo “sangue blu” tra corruzione, favoritismi e verdetti dubbi: la boxe. L’Italia partiva per il Brasile con un buon bottino: tre erano stati i pugili medagliati a Londra 2012, con il bronzo di Vincenzo Mangiacapre e gli argenti di Clemente Russo e quello contestatissimo di Roberto Cammarelle, unico dei tre a non aver preso il volo per Rio, sostituito nella sua categoria di peso (supermassimi, ndr) da Guido Vianello.
Con l’eccezione di Manuel Cappai, anche lui “veterano” dei Giochi inglesi, gli altri pugili portati dall’Italia rappresentavano tutti una novità: Carmine Tommasone è stato il primo pugile italiano professionista a prender parte alle Olimpiadi, dopo la contestatissima ammissione dei pro alla competizione a Cinque Cerchi; Valentino Manfredonia ha gareggiato per i pesi mediomassimi, categoria in cui non avevamo presentato nessuno quattro anni prima; e infine Irma Testa è stata la nostra prima pugile donna qualificatasi alle Olimpiadi (le donne furono ammesse solo a Londra 2012, ndr).
Nomi importanti, aspettative molto alte, con Russo e Manfredonia che erano qualcosa di più di una speranza per il nostro medagliere: proprio per questo le zero medaglie dei nostri pugili possono essere definite una débâcle totale, visto che da Atlanta ’96 l’Italia era sempre finita almeno una volta sul podio della boxe. Ma analizziamo il percorso di ogni singolo pugile.
Partiamo proprio dall’ultima novità elencata, quella Irma Testa che è riuscita a strappare il primo pass tra le pugili italiane. Il suo esordio è stato più che convincente, con la vittoria (seppur non unanime) sull’australiana Shelley Marie Watts. L’emotività e l’inesperienza hanno poi purtroppo preso il sopravvento nel secondo match contro la campionessa del mondo Estelle Mossely (sarà lei a vincere l’oro olimpico nei pesi leggeri, ndr): la francese è di un altro livello e la nostra Irma non riesce a prendere le adeguate contromisure. A poco valgono le successive proteste contro il verdetto unanime della giuria («È dall’inizio che ci danno addosso, c’è stato uno studio a tavolino» le sue dure parole), ma torniamo a casa con almeno la consapevolezza che la 18enne Irma è un talento sicuramente da tenere sott’occhio.
Meno complessa da analizzare la prova di Manuel Cappai, che replica sostanzialmente la prestazione di Londra, venendo sconfitto al primo incontro dall’americano Nico Hernández: l’unica differenza che si può sottolineare è che, mentre a Londra aveva iniziato dai sedicesimi, la sconfitta di Rio è ai trenaduesimi.
Contro Carmine Tommasone ha giocato invece perlopiù la sfortuna: dopo una stupenda e netta vittoria contro il messicano Lindolfo Delgado, il tabellone non è stato clemente, accoppiandolo al triplice campione del mondo Lázaro Álvarez, fortissimo cubano mancino che andrà poi a vincere il bronzo nei pesi leggeri. Un avversario fuori portata per Tommasone, che comunque è stato quello che ha mostrato la boxe più convincente non solo tra gli Azzurri, ma in generale tra tutti i professionisti giunti a Rio, i quali non hanno certo brillato, sancendo di fatto il fallimento di questo folle esperimento.
Molto sfortunato anche Vincenzo Mangiacapre, che dopo aver sopraffatto il messicano Juan Pablo Romero è costretto al ritiro a causa di una frattura allo zigomo, senza possibilità dunque di difendere il bronzo di Londra sul ring.
Cocente la delusione invece per Valentino Manfredonia: l’italo-brasiliano era uno dei migliori pugili presentati dalla Federazione Italiana e le aspettative per lui erano altissime. Il primo incontro con il bulgaro Mikhail Dauhaliavets, avversario decisamente alla portata del nostro boxeur, doveva essere poco più di una formalità, diventando invece il capolinea per Manfredonia: irriconoscibile nelle prime due riprese, lento e con una guardia bassissima, ha un moto d’orgoglio solo nell’ultimo round. Troppo poco per salvare un match ormai compromesso.
Subito fuori dopo il primo combattimento anche Guido Vianello, colui che dovrà far dimenticare quel Cammarelle che a lungo ha regalato soddisfazioni ai tifosi della Penisola. I supermassimi sono tuttavia una categoria di peso sicuramente non semplice ed è stata forse proprio l’inesperienza del ventiduenne a comprometterne l’esperienza di Rio: il cubano Leinier Eunice Pero non è affatto un avversario fuori portata, ma Vianello sembra quasi intimorito, non riuscendo ad esprimere la propria boxe e perdendo con un verdetto unanime dei giudici. A poco valgono le proteste contro il dubbio conteggio subito dall’Azzurro nella seconda ripresa, la vittoria del cubano non è mai stata in discussione.
Chiudiamo con il pugile probabilmente più noto al grande pubblico, quel Clemente Russo che è ormai da anni uno dei combattenti più rappresentativi della Federazione Italiana, nonché uno dei più vincenti di sempre, presentatosi a Rio con il doppio argento di Pechino 2008 e Londra 2012 da difendere. Il primo incontro diventa subito pane per i denti dei detrattori di Clemente, nonché tema di dibattito sull’obiettività dei giudici: l’italiano infatti combatte male, subendo per tutti e tre i round l’iniziativa del tunisino Hassen Chaktami. Nonostante questo, il verdetto unanime è a favore di Russo, che sembra quasi sorpreso lui stesso dalla vittoria.
Comunque, a destare più scalpore, viste anche le conseguenze, è il secondo match combattuto contro Evgenij Tiščenko: il campione di Doha 2015 è un pugile di livello assoluto, ma Tatanka finalmente inizia a combattere seriamente, mettendo alle corde il gigante. Tuttavia i giudici incredibilmente assegnano all’unanimità il primo round al russo; lo stesso accadrà anche per le riprese successive, quando ormai il pugile di Marcianise, sfiancato dal tentativo di recuperare l’assurdo svantaggio, perde forze e motivazione.
La vittoria verrà assegnata tra i fischi proprio a Tiščenko, spalancando le porte a uno dei maggiori scandali di queste Olimpiadi e della boxe: il pugile russo arriverà fino alla finale dove nuovamente, nonostante la netta supremazia sul ring del kazako Vassiliy Levit, che ha addirittura sfiorato il colpo del KO nell’ultimo round, verrà premiato con la vittoria con verdetto unanime e con la medaglia d’oro dei pesi massimi.
Una vittoria che non può e non deve passare inosservata: dopo la sconfitta di Cammarelle a Londra, con l’oro assegnato dalla giuria al padrone di casa Anthony Joshua, si auspicava una pronta guarigione per uno sport che stava finendo sempre più nella spirale della corruzione e della politica. Il caso Tiščenko ci ha dimostrato che il pugilato è caduto ancora più in quel gorgo, con decisioni sempre meno trasparenti e vittorie ottenute fuori dal ring. Serve una rifondazione, il prima possibile, o della nobile arte resterà solo il titolo, come quello di un aristocratico decaduto.