Un argento conquistato e non un oro perso. Mauro Nespoli ha definito così la medaglia ottenuta nel torneo individuale del tiro con l’arco alle Olimpiadi di Tokyo 2020: una medaglia sognata, inseguita, raggiunta con enormi sforzi e un’enorme soddisfazione. Una medaglia, quell’argento, che è il coronamento di un sogno e di un percorso: era il lontano 1997, quando il giovane Mauro iniziava a tirare con l’arco per imitare il Robin Hood del noto cartone animato, era il 2008 quando conquistava l’argento a squadre, preludio dell’oro di Londra 2012, e nove anni dopo ecco che il sogno si realizza. Nella lunga intervista realizzata presso la Compagnia Arcieri DLF di Voghera, l’atleta della Fitarco e dell’Aeronautica Militare si è raccontato a tutto tondo: l’epica giornata dell’argento di Tokyo 2020 e quelle Olimpiadi rinviate, un finale di stagione che l’ha deluso, le sue passioni e molto altro. Ecco le parole di Mauro Nespoli ai microfoni di Azzurri di Gloria.
Mauro Nespoli

Mauro Nespoli e il suo argento nelle strutture della Compagnia Arcieri DLF di Voghera

L’ARGENTO OLIMPICO E LE OLIMPIADI DI TOKYO 2020: I RICORDI DI MAURO NESPOLI 

Raccontaci la fantastica giornata che ci ha portato alla tua medaglia d’argento. Una medaglia che ci ha emozionato molto, nelle lunghe notti olimpiche. “Innanzitutto, devo dire che è stata una giornata lunga e carica d’emozioni. Il maltempo ha influito e ha allungato il nostro programma alle Olimpiadi, che tra l’altro aveva la particolarità di inserire tre-quattro giorni di stop tra i primissimi turni e la lunga tirata dagli ottavi alla finalissima. Col mio brutto piazzamento in qualificazione, ho gareggiato tra i primissimi sia nel giorno dei 32mi-16mi di finale, che nel percorso seguente: è stata un’Olimpiade anomala perchè, non avendo l’impegno della squadra, ho avuto parecchi giorni “buchi” e lunghi momenti senza gare nei quali sono stato veramente bravo a ritrovarmi. Non ero super-focalizzato sul mio gesto e sulla gara nei primissimi giorni, cosa che mi ha sorpreso, ma tutto è cambiato nei momenti decisivi: sono partito con grande impeto e grande carica contro De Almeida. Sapevo di dover fare un’ottima impressione contro un avversario di livello alto, e ho pensato solo a tirare le mie frecce nel miglior modo possibile: mi sono concentrato su di me, sul mio tiro, sulla mia sequenza, non ho mai guardato le frecce sul maxischermo, le mie e le sue, e ha funzionato. Ho tirato molto bene e ho vinto 6-0. Nel match dei quarti, contro Florian, ho vissuto dei momenti stressanti perchè aveva appena eliminato uno dei sudcoreani e dovevo tirare molto bene. Di scontro in scontro, il livello è salito e con lui la pressione, e questo ha alzato la mia soglia d’attenzione e mi ha permesso di comportarmi sempre meglio. Dalla semifinale in poi ho una sorta di buco: ancora non ho rivisto la gara e non l’ho voluta guardare, ho ricordi frammentati. L’emozione è ancora molto forte, ho rivisto qualche freccia della gara nelle varie premiazioni ma non l’ho ancora riguardata tutta. Forse anche per il timore di scovare qualche errore e perdere le sensazioni positive, ripensando a quelle occasioni in cui avrei potuto chiuderla o a qualche errore. Ho tirato molto bene, Mete (Gazoz, ndr) ha tirato meglio e ha vinto con merito. Ci sono un paio di momenti in cui avrei potuto tirare diversamente, non ho ancora rivisto tutta la gara e il Mondiale, ma lo farò nei prossimi giorni, visto che avrò qualche giorno di stop prima di riprendere la preparazione in vista delle gare indoor e del 2022. Così facendo, capirò qualche errore e cercherò di comprendere se ai Mondiali e nei campionati italiani ho tirato male perchè avevo esaurito le energie mentali e fisiche, oppure per altre motivazioni. E da lì ripartiremo in vista del triennio verso Parigi 2024″. Hai ripetuto più volte che non è oro perso, ma è un argento vinto. Anche perchè il Ranking Round era stato da dimenticare… “E lo ripeto tuttora. Per me è un argento vinto. Questo anno-extra verso le Olimpiadi l’ho visto sempre come un’occasione per migliorarmi e crescere ulteriormente in vista dei Giochi, ma una volta che sono arrivato a Tokyo mi sono reso conto di essere affaticato e appesantito mentalmente. Alcune dinamiche che erano state affinate nel corso delle gare del 2019, per l’anno e mezzo di sostanziale stop delle competizioni (molto ridotte nel periodo-COVID, ndr), le avevo completamente perse e sono diventate un pensiero ricorrente nei giorni che mi portavano verso le gare e il turno di qualificazione. Di fatto ho tirato veramente male nel Ranking Round per questo, non riuscivo a stare concentrato sul momento e a perdere l’attenzione, ma la freccia andava comunque tirata e i risultati sono stati quello che sono (24° posto, ndr). Mancava l’abitudine alla gara vera e propria, non tanto alla qualifica, che avevo fatto bene nei primi mesi dell’anno, ma allo scontro uno-contro-uno e a quel momento in cui ci si gioca tutto in pochissimi secondi. Ero arrivato a Tokyo per fare il mio record personale in qualificazione, visti i risultati ottenuti in allenamento, ma la tensione e il calo d’attenzione mi hanno fatto rendere al di sotto delle mie potenzialità. A questo si era aggiunto il fatto che disputare gli scontri uno-contro-uno in Italia, a causa delle normative-COVID e della situazione che si è creata, è stato veramente difficile. Il numero di gare disputate è stato esiguo, anche perchè la distribuzione degli arcieri sul territorio italiano è larga e, con normative contro il cambio di regione, rendeva tutto più difficile. Inoltre, nei raduni della Nazionale avevamo focalizzato il tutto sulla qualificazione delle squadre, riuscita al femminile ma non al maschile, dov’ero stato affiancato da Musolesi e Paoli. Questa disabitudine allo scontro 1vs1 ha fatto sì che a Tokyo uscissero gli atleti di maggior esperienza e con le spalle più larghe, io e Lucilla (Boari, ndr). Nonostante il valore di Andreoli e Rebagliati”. Sono state delle Olimpiadi strane, col distanziamento sociale e gli atleti “confinati” nei propri alloggi, senza poter effettuare tutti quegli incontri che ci avevi raccontato dopo Rio 2016 e senza poter vivere appieno il Villaggio Olimpico. Come le hai vissute? “Sono state Olimpiadi anomale. A Pechino, Londra e Rio avevo potuto visitare altri stadi e assistere ad altre gare. Qui invece sono stato solo al campo di tiro con l’arco e al Villaggio Olimpico. In più, entro 48h dalla fine della mia competizione dovevo lasciare il Villaggio e tornare a casa, e non si poteva uscire dal Villaggio stesso se non per poter arrivare al sito di gara. Lo spettro-COVID, non tanto per il rischio di essere contagiati ma per quello di essere contatto stretto di un positivo, ha di fatto frenato la socialità e il clima che si creavano solitamente in un’Olimpiade. Soprattutto nei primi giorni. Poi, verso la fine dei Giochi il clima è cambiato perchè eravamo tutti nella bolla e in Giappone da almeno 15 giorni, poi quando abbiamo visto che il numero dei contagi non saliva e aumentava, si è alleggerito il clima. Non è stato semplice e, per quanto mi riguarda, l’ho patita abbastanza quest’Olimpiade. Al di là del tempo passato sul campo di tiro e dell’attività sportiva, mi chiudevo nella mia camera e nel mio alloggio tentando di far passare il tempo da un pasto all’altro o da campo di tiro a campo di tiro. Non ci sono state, di fatto, attività di svago per far passare il tempo e non rimuginare su qualche freccia sbagliata o tirata male e ho pensato parecchio sulla gara di qualifica, portandomi dietro la tensione nei primi due scontri. Il contrappeso dato dall’aver vinto due scontri ed essere lì a giocarmela, nei giorni che portavano agli ottavi e alle altre gare, mi ha caricato e mi ha ricaricato. Però non nascondo che anche quel pensiero ricorrente del “Se finisci la gara, te ne torni in Italia” mi ha influenzato: se fossi uscito subito, di fatto sarei andato via il 28 luglio, dopo essere rimasto pochissimo tempo in Giappone. Sarebbe stato quasi come non esserci andato. E tutti questi pensieri e “seghe mentali” hanno condizionato la qualifica, che non è stata di livello”. La sensazione, quantomeno dalla tv, è stata che il primo scontro, quello contro il kazako Gankin, sia stato il più difficile. “Confermo, è stato un duello durissimo dal punto di vista fisico e mentale. Non l’ho mai negato, non sono mai stato una cima negli scontri individuali e nel sistema dei set. Sono stato sempre molto forte nelle gare di qualificazione, e avevo trovato la quadra negli uno-contro-uno nel 2019. Posso dire che se le Olimpiadi fossero state un anno fa, probabilmente mi sarei comportato molto meglio negli scontri a livello di punteggio e sarei stato più “vincente”, tirando con una mentalità più leggera. Gli scontri fatti quest’anno in Coppa del Mondo, dopo il lungo stop per il COVID, sono stati complicati per la gestione dello stress e della tensione e mi hanno dimostrato la perdita di qualche automatismo. In più, i punteggi non sono stati assolutamente in linea con quelli fatti in qualificazione e il primo scontro delle Olimpiadi è stato un salto nel buio: avevo lasciato trenta punti sul campo nella qualificazione (658/720, ndr) e mi sono chiesto a lungo quanti ne avrei lasciati nello scontro diretto contro Gankin. La primissima freccia è stata complicata: mi tremavano le gambe, in maniera vistosa e percepibile da me, ci ho messo molto a mirare e scoccare. Poi, però, quando è partita e ha colpito il 10, mi ha riacceso la convinzione nei miei mezzi: sapevo che non dovevo essere al 100%, mentalmente e fisicamente, per tirare dei 10 e che sarei stato in grado di giocarmela fino all’ultima freccia. Le prestazioni seguenti sono state una conseguenza di questa fiducia e di questo alleggerimento della pressione, ed è arrivato il risultato che tutti sappiamo. In finale, fino all’ultimo set, sono stato sul pezzo. Ho pagato un errore nel secondo set, non andando sul 4-0 ma sul 3-1, e poi ho commesso l’errore che mi è costato la sconfitta nella prima freccia dell’ultimo set”.

IL SOGNO REALIZZATO E UN’ESTATE ITALIANA

L’argento di Tokyo 2020 ha coronato un percorso iniziato molti anni fa e il sogno di un bambino che iniziava a tirare con l’arco. “Un percorso che è iniziato molti anni fa, perchè ho iniziato a tirare nel 1997 e fino a Rio 2016 mi son sentito ripetere e mi sono ripetuto che fossi performante e bravo solo in qualifica, che tirassi bene nella prova a squadre perchè la tensione era condivisa coi compagni di squadra (oro a Londra e argento a Pechino, ndr), ma in qualche modo nell’individuale non fossi all’altezza. Ho pagato e ho subito questa cosa per anni, fino al 2016. Con l’Olimpiade di Rio, dopo la performance pessima a squadre e questo riscatto personale, ho avuto modo di toccare con mano tutta una serie di successi nella competizione individuale, e questo argento è il raggiungimento del mio picco di forma e il coronamento di tutto un percorso di riscatto verso me stesso e nei confronti di tutti quelli che per qualche anno non hanno creduto in me. E, tra l’altro, il mio argento arriva dopo una pessima qualificazione (ride). Posso dire di aver fatto tre brutte qualificazioni recentemente: nei Mondiali sono stato in linea con la prestazione di Tokyo, con condizioni meteo decisamente peggiori, salvo poi uscire subito. Nei campionati italiani, brutta qualificazione e 4° posto per poi vincere il titolo. Due volte su tre, ho ottenuto un grande risultato (ride). Di solito la qualificazione ti permette di saltare i primi due turni di scontri, ma a me serviva quello: fare degli scontri, rimettermi in gioco dopo la pausa-COVID e rimettere in moto una macchina che a causa di condizioni mie e condizioni esterne non ha reso al suo massimo apice. Mi convincevo di non potercela fare, e al primo scontro andavo a casa”. Tokyo 2020 è stata un’Olimpiade a suo modo storica per il tiro con l’arco, nell’individuale maschile: nessun atleta della Corea del Sud sul podio. Non è successo molto spesso… “Non è successo molto spesso, è vero. Ma va anche detto che hanno conquistato quattro ori su cinque, dunque la loro Olimpiade è stata decisamente positiva (ride). Nel maschile individuale non sono così imbattibili, ed è stato sorprendente il fatto che siano usciti abbastanza presto”. Raccontaci come hai vissuto la straordinaria estate italiana: dagli Europei di calcio, ai record alle Olimpiadi e alle Paralimpiadi, agli Europei di ciclismo e volley, a successi in discipline molto note e a volte anche curiose (l’Italia ha appena vinto il titolo europeo per la zucca più pesante, ndr). Un’estate tricolore, che sicuramente ti avrà dato un ulteriore stimolo… “Questa straordinaria estate ci ha dato grandi energie, grandi soddisfazioni e grandi stimoli. Ognuno di noi atleti non voleva essere da meno rispetto a chi aveva già gareggiato e vinto, sia per quanto riguarda gli eventi prima dei Giochi, sia per quelli durante e dopo. Ogni medaglia ci ha caricato e ci ha dato un senso di emulazione e una voglia di vincere incredibili. Questo ha fatto sì che l’inno di Mameli potesse risuonare tante e tante volte e, a quanto vedo e vediamo, non è ancora finita!”. C’è un momento delle Olimpiadi di Tokyo 2020 che in tanti ricorderemo a lungo: il doppio oro, in una decina di minuti, di Tamberi e Jacobs. Come l’hai vissuto? Eri ancora in Giappone? “In quel momento… ero in aereo. Sono uno dei pochi italiani a non aver visto dal vivo le due gare (ride, ndr). Il protocollo dei Giochi ci imponeva di tornare a casa a 48h dalla fine delle nostre gare, dunque eravamo in volo quando ci è stato comunicato. Abbiamo festeggiato, anche con un certo livello di incredulità sull’aereo, questo risultato storico. Non ce l’aspettavamo, era una disciplina che aveva avuto delle difficoltà recenti, ma l’Italia è un paese che è storicamente bravo a raddrizzare situazioni difficili ed uscire in grande stile da quelle difficoltà. Era successo anche col tiro con l’arco: a Rio abbiamo bucato la performance, a Tokyo sono arrivati il mio argento e il bronzo di Lucilla. Non ci eravamo seduti sugli allori nel 2016, ma altri movimenti e altri atleti erano cresciuti e ci hanno dato “una sveglia” che ci è servita per crescere e migliorare”.

MAURO NESPOLI E L’AVVICINAMENTO ALLE OLIMPIADI

Abbiamo sfiorato più volte il COVID-19, e allora ti chiedo come hai vissuto quell’anno e mezzo condizionato dal virus, con lo spostamento inevitabile dei Giochi e dirette conseguenze sulla vita di tutti i giorni, sull’allenamento ecc. “Quando ci hanno comunicato che le Olimpiadi sarebbero state rinviate, le emozioni sono state contrastanti. Da un certo punto di vista, visto che già avevamo iniziato ad avere difficoltà con gli allenamenti, è stato un sollievo perchè non sarebbe stato giusto competere dopo aver fatto tutti quei salti mortali tra decreti e problematiche varie, con la situazione grave che c’era in Italia e il rischio di vedere sfumare una medaglia per cause di forza maggiore. La notizia mi ha destabilizzato, sul momento, poi ovviamente la portata della pandemia ha cambiato completamente le sensazioni e i sentimenti riguardo al momento e alla situazione drammatica che stavamo vivendo. Col senno di poi, posso definire la decisione di spostare i Giochi un grande esempio di maturità, mettendo in secondo piano un evento sportivo e mediatico, che muove tantissimi soldi, rispetto alla salute delle persone e degli individui. Nel 2020 ho cercato di mantenere gli stessi ritmi che avrei avuto in un anno olimpico, preparandomi come se i Giochi ci fossero stati effettivamente, e le performances al campo di tiro ci sono state. Lì mi sono convinto di poter competere. La cosa più complicata, però, è stata ricominciare a tirare a ottobre 2020: siamo entrati nella seconda ondata, è ricominciato tutto, si è ricominciato a parlare della possibile cancellazione dei Giochi e quelle voci sono durate fino a maggio di quest’anno. Il rischio di passare direttamente al 2024 è stato mentalmente devastante, abbiamo ripreso la preparazione senza avere un reale obiettivo e lavorando per qualcosa che tutti pensavano sarebbe stato cancellato, con enormi difficoltà anche nell’organizzare le gare di preparazione precedenti ai Giochi. Per un certo periodo, tra marzo e aprile 2021, erano a rischio le gare a squadre. Non sapevamo per che cosa ci stavamo preparando, e mantenere le giuste motivazioni senza sapere quando avremmo potuto raccogliere il risultato del nostro lavoro è stato difficilissimo. Da un punto di vista mentale, restare sul pezzo ha significato un dispendio di energie che poi ho scaricato sul fisico: da marzo 2020 a luglio 2021 sono aumentato 13kg, perchè non avevo la testa per andare a correre ecc. Avevamo tantissime limitazioni e incertezze, dover limitare e controllare anche il cibo è stato impossibile. Da un punto di vista fisico, ho vissuto la stagione meno “atletica” della mia carriera. Ma per Parigi, tra tre anni, tornerò tirato a lucido (ride). Scherzi a parte, abbiamo vissuto un quadriennio-quinquennio difficile. Nel mezzo, c’è stato anche un cambio di tecnici dovuto alle elezioni federali, che con lo slittamento dei Giochi sono state a sei mesi dalle Olimpiadi. Con annessa incertezza pre e post-elezioni, a ridosso dei Giochi. La campagna elettorale è stata accesa, alla fine il presidente uscente è stato riconfermato e c’è stato un ricambio notevole in termini di volti nel Consiglio direttivo. Questo clima ha generato tensione prima dei Giochi, tensione che si è riversata più o meno coscientemente sugli arcieri. Succede, purtroppo”. A marzo, un anno fa, hai vissuto anche il furto del tuo arco. C’è stato un momento in cui hai temuto di non recuperarlo e di doverlo ricostruire ex novo? Il tuo è uno degli archi più pesanti (25-30kg) e un pezzo unico, visto come l’hai costruito e raffinato nel corso degli anni… “La preoccupazione principale, legata a quell’arco, era poter recuperare l’impugnatura. Mi ero segnato tutte le specifiche del resto dell’arco, i riser e i flettenti, quindi sarei riuscito a ricrearli senza grosse difficoltà e a ritrovare il feeling. Di fatto, questo succede anche quando ti si spacca l’attrezzatura, dunque non ero inquieto per quello, ma sull’impugnatura ci sarebbero stati dei serissimi problemi: ero in un momento di test e modifiche, stavo lavorando all’impugnatura che poi avrei usato ai Giochi e la stavo costruendo sulla mia mano. Avevo già dato una prima indicazione per costruire ciò che avrei usato a Tokyo, ma di fatto ci saremmo dovuti rimettere lì da capo con stucco e carta vetrata per ricostruirla, creando anche un meccanismo mentale per cui nessun arco sarebbe stato uguale a prima ecc ecc. Fortunatamente visto il mio appello social, l’unicità dell’arco e l’impossibilità di piazzarlo in qualsivoglia mercato, non è stato venduto ed è tornato a casa. Giravo vicino al campo sperando che venisse buttato via da chi l’aveva preso com’era già successo durante alcune gare, invece a sorpresa mi è stato direttamente riportato. E poi, nell’anno-extra verso le Olimpiadi abbiamo ancora rivoluzionato il mio arco, cambiando dei pezzi e creando quello che ho usato a Tokyo”. Passiamo al tuo allenamento. Quante frecce tiri, a stima, in un anno? Fai ricorso a dei mental coach, come spesso accade tra gli atleti? “All’incirca, siamo sulle 50-60mila frecce all’anno, Dipende ovviamente dalla stagione e dal periodo del quadriennio. E iniziano ad essere un pochino meno rispetto al passato, perchè divento “maturo”. C’è ovviamente una parte di preparazione fisica indispensabile per proseguire gli allenamenti, perchè altrimenti andrei in pezzi e fortunatamente così ho evitato infortuni sin qui. E poi c’è l’aspetto mentale: sono tante le frecce e tante le possibili distrazioni rispetto a quella che è la linea di pensiero che si deve seguire per tirare le frecce al centro e ottenere grandi risultati. L’attenzione dev’essere focalizzata sul gesto e non sulla mira, altrimenti si corre il rischio di dimenticarsi il gesto stesso. Lavoro e ho lavorato con degli psicologi sportivi, per eliminare le distrazioni e identificare la sequenza di pensieri e feedback corporei da mantenere durante il tiro. Ognuno trova la propria via: c’è chi lavora con gli psicologi, chi coi mental coach, chi viaggia da solo e riesce a concentrarsi senza aiuti esterni. Non è necessario avere un mental coach o uno psicologo per vincere, ma ci vuole grande concentrazione e convinzione nei propri mezzi per raggiungere gli obiettivi”. Il sistema dei set ha reso il tiro con l’arco uno sport ancora più stressante a livello mentale? “L’ha reso sicuramente più incosciente. L’ha reso più televisivo, più divertente da tirare. Non ero inizialmente un grande amante dei set, perchè sono un fan della continuità: ero molto scettico quando è stato inserito questo sistema, perchè i punteggi in qualifica non rispecchiavano quelli dei set, e spesso gli arcieri più forti non vincevano, perchè era tutto molto aleatorio. In realtà, questo sistema ha spinto il livello e i punteggi di tutti verso l’alto: per essere certo di vincere il set e/o potertela giocare, devi viaggiare sempre sui 29pti. Ribaltandolo sulla gara di qualifica, sono punteggi che non tutti ottengono. Il livello medio è cresciuto e le gare sono diventate molto stimolanti. Paga ancora la precisione continua”.

IL FINALE DI STAGIONE: DAI MONDIALI AI CAMPIONATI ITALIANI

Il tuo finale di stagione è stato di tono diverso: nei Mondiali è andato tutto storto, nei campionati italiani hai fatto fatica e hai vinto il titolo. Una vittoria di coppia, visto che Vanessa Landi, tua fidanzata e compagna di allenamenti, ha conquistato lei stessa il titolo. Un bis anche per l’Aeronautica Militare, il tuo gruppo sportivo. “Innanzitutto ringrazio l’Aeronautica Militare per il supporto e l’attenzione che mi viene dedicata da moltissimi anni. Il Mondiale è riassumibile in una parola: disastroso. Tutta l’Italia ha tirato male, io non ho tirato bene nè in qualifica, nè negli scontri. Ho perso 6-0 contro il giapponese Kuwae, che ha fatto 28, 30 e 29, ma non mi sono minimamente avvicinato ai suoi punteggi in nessuno dei set. Una vittoria schiacciante la sua, e anche nelle finali di CdM contro Brady Ellison non ho praticamente tirato, fornendo una brutta prestazione. Rilassamento post-Olimpiadi? Credo che il problema sia stato l’opposto: solitamente dopo le Olimpiadi mi fermo uno-due mesi per staccare, invece quest’anno vista la presenza dei Mondiali e delle finali di CdM, ma anche visto che ci dovevamo qualificare agli italiani con la squadra della Compagnia Arcieri DLF, ho tirato dritto. Sono stato dieci giorni senza tirare, andando tutti i giorni sul campo con Vanessa che stava chiudendo la sua stagione in maniera differente e doveva qualificarsi ai campionati. Sono tornato a tirare pretendendo da me stesso il livello dei Giochi, ma fisicamente non ne avevo: ho fatto tantissima fatica, più di quella che avrei fatto presentandomi al Mondiale senza aver tirato una freccia dalle Olimpiadi, e sarei arrivato con una leggerezza mentale diversa. Invece, così facendo ero convinto di essere brillante come ai Giochi e nel campionato italiano la finale è stata emblematica della mia non condizione: ho fatto punteggi bizzarri, con errori grossolani e rivedibili. Sul 4-0 mi sarebbe bastato restare nel giallo per chiudere la serie contro un ragazzo giovanissimo, di 16 anni, e avrei vinto facendo 27: ho fatto un otto, siamo andati sul 5-1 e poi allo spareggio, e allo shoot-off abbiamo fatto due nove e la mia freccia era uno-due millimetri più vicina al bersaglio. E, posso giurarlo, a occhio nudo sembrava a tutti il contrario. C’è stato uno spegnimento strutturale che mi ha portato a non avere più energie, se ci fossero stati altri set avrei rischiato un serissimo infortunio: ho commesso errori tecnici, effettuando tiri scoordinati che portano al rischio d’infortuni. Soprattutto col mio arco”. Qual è stato del movimento italiano? Stanno emergendo nuovi talenti nel nostro tiro con l’arco?Paghiamo il conto di un periodo ricco di risultati, nel quale abbiamo vissuto sui successi e le grandi prestazioni di campioni come Galiazzo e Frangilli, che ora si avvicinano al tramonto. Su quella generazione d’oro, che arriva fino al sottoscritto, abbiamo costruito e contato per tanti anni. E le carriere longeve dei vari Galiazzo, Frangilli, Del Buò e da ultimo del sottoscritto, hanno forse fatto sedere sugli allori la generazione successiva, che si è sostanzialmente adagiata aspettando il nostro declino e che noi “morissimo” (ride, ndr): facevamo le trasferte non per grazia ricevuta, ma perchè effettuavamo più punti e le giovani promesse non sono riuscite a scalzarci dalla maglia della Nazionale. E ora, di fatto, non ci sono più o non sono comunque pronti per ottenere grandissimi risultati tra Olimpiadi e Mondiali. Ci sono giovani, da Pasqualucci in poi, che stanno crescendo bene: David non ha tirato bene negli ultimi due anni, ma è un grande talento. Da lui in giù ci sono alcuni ragazzi promettenti, tra cui figurano Federico Musolesi e Alessandro Paoli con cui ho tirato in squadra al Mondiale e in CdM, e che potranno acquisire esperienza e crescere nei tre anni verso Parigi 2024. Stesso discorso al femminile, dove la squadra è cambiata perchè Sartori ha smesso di tirare e Mandia è uscita dal team, causando così un calo nell’esperienza: la più matura è Lucilla Boari che è comunque giovanissima (24 anni, ndr) e ha conquistato il bronzo a Tokyo, poi ci sono Andreoli e Rebagliati. Vanessa (Landi, ndr) ha vinto i campionati assoluti e abbiamo effettuato questa doppietta che è un grande risultato per noi e per l’Aeronautica, quindi continua ad essere lì e credo che stia acquisendo grande consapevolezza nelle sue potenzialità e possa restare stabilmente nella Nazionale. Ci sono poi varie nuove leve, ancora acerbe, nella squadra giovanile che potranno integrare l’attuale Nazionale. Ovviamente queste due medaglie hanno garantito grande visibilità al movimento e attirato i bambini, come ho potuto personalmente vedere con l’enorme presenza all’evento celebrativo del mio argento che si è tenuto al Castello Visconteo di Voghera, e questo sarà fondamentale per il futuro. L’arco è uno sport che in tempo di COVID si può fare tranquillamente perchè l’arco è il tuo e c’è distanziamento, e dunque speriamo che nel futuro si possa innescare un circolo virtuoso che porti alla crescita del movimento come numeri e come prestazioni. Creando un movimento che si autoalimenta e una nuova generazione vincente per la Fitarco: la vittoria di Galiazzo e la nostra a squadre avevano generato un’altra impennata del movimento, e vedremo cos’accadrà in futuro”.

IL FUTURO DI MAURO NESPOLI E QUEL SOGNO “AUSTRALIANO”

Parliamo di futuro. All’orizzonte ci sono le Olimpiadi di Parigi 2024, ma hai fatto intendere che il tuo sogno sarebbe quello di andare avanti fino a Brisbane 2032. “L’idea è quella. Dall’Australia all’Australia. Nel 2000, mentre si svolgevano i Giochi di Sydney, assistevo dalla tv alle prestazioni azzurre e sognavo, da 13enne che si affacciava al grande tiro con l’arco, le Olimpiadi. Il mio sogno olimpico è iniziato osservando Sydney e mi sembra un’idea romantica chiuderlo nel 2032 in Australia. Solo per quello mi son dato l’obiettivo di Brisbane, anche se allora avrei 45 anni. Altrimenti, avrei disputato Parigi e messo già in discussione una partecipazione a Los Angeles 2028. Lavorerò di anno in anno, bisognerà continuare a trovare nuovi stimoli e non abbassare la guardia. Non nascondo che l’anno-extra pre-Tokyo mi abbia messo in difficoltà e mi abbia tolto delle certezze, però devo crearmi degli stimoli e delle motivazioni per proseguire”. Come cambia questo sport, come hai detto tu, “maturando”? “Innanzitutto cambia lo spessore delle lenti degli occhiali, che ora iniziano ad essere davvero grandi (ride, ndr). Scherzi a parte, ho una maturità decisamente superiore anche negli allenamenti. Prima tiravo tantissime frecce, non importava come, perchè nelle tante frecce ci sarebbero state anche quelle buone. Oggi invece sono più selettivo e cerco di tirare solo frecce buone. Orario ridotto rispetto al passato? In qualche modo sì, ho cambiato la strutturazione degli allenamenti: sono passato da due allenamenti al giorno a tre più corti, con maggior qualità, tirando comunque il numero di frecce necessario. E anche la scelta della tipologia di gare da affrontare è cambiata: se prima mi piaceva l’idea di gareggiare, non importa dove/come/contro chi, ora sono più selettivo anche su questo aspetto. Perchè se no, non trovo la giusta tensione e adrenalina che tiene alta la fame di vittoria. Da ragazzino disputavo anche le gare cosiddette “della domenica” pur di fare qualcosa, ora invece mi gestisco in maniera differente e trovo anche dei momenti in cui staccare e/o godermi gli amici e le passeggiate. Ho comprato anche un arco compound, diverso dal mio, per trovare nuovi stimoli e cambiare il gesto tecnico, così da mantenermi allenato ma facendo cose differenti. Personalmente non mi sono mai piaciute le gare indoor, ma non si può restare senza gareggiare da ottobre ad aprile. E allora riparto inizialmente col compound, dove ho un livello infimo perchè non ci ho mai tirato (ride), per avere sempre lo stimolo a crescere e migliorarmi e creare una nuova sfida. Al mio livello attuale nell’arco, lavori tre mesi per guadagnare un punto e quel risultato resta per mesi invisibile al di fuori della tua testa, mentre nel compound posso ottenere risultati immediati e sentirmi appagato. Facendo qualcosa di diverso e stimolante, che aumenta la mia voglia di vincere”.

L’INTER E LA F1: LE ALTRE PASSIONI DI MAURO NESPOLI

Chiudiamo uscendo dal tiro con l’arco. In un’intervista post-olimpica, hai dichiarato che le tue vittorie sono come quelle della tua Inter: poche, bellissime e ottenute col cuore. Com’è nata questa tua passione, e quali altre discipline segue Mauro Nespoli? “La mia passione per l‘Inter è una passione di famiglia. Mio nonno materno era interista, mia mamma e mia zia sono interiste. Sono cresciuto a pane e Inter, e lo scudetto mi ha emozionato. Non posso dire di essere un tifoso di quelli che vanno allo stadio e guarda tutte le partite, e anzi di calcio capisco abbastanza poco (ride, ndr): mi piacciono le partite giocate a mille, non quelle in cui si fa melina o non si segna mai, e se mi stufo cambio canale. Lo stesso vale per la mia altra passione, la Formula 1, che funziona alla stessa maniera: sono ferrarista e tifo Ferrari anche se non vinciamo praticamente più, ma a me piacciono le gare movimentate: adoro i sorpassi, l’adrenalina legata alla velocità e i piloti che combattono dall’inizio alla fine per andare veloce. Sono contro la F1 moderna e contro questi regolamenti che ti spingono a risparmiare le componenti e i motori, non sorpassare mai eccezion fatta per il DRS e quant’altro. L’idea del risparmio delle energie e delle componenti mi lascia perplesso. Quando faccio una gara di tiro con l’arco, lascio ogni briciola d’energia e sono svuotato al termine della competizione. Mentre in F1 tutto viene gestito: è come se al sottoscritto chiedessero di ottenere un limitato numero di 10 nell’arco della stagione, costringendomi poi a non fare più il massimo punteggio se per sbaglio li raggiungo nella prima gara. Non ha senso. Uno sport che ti impedisce di ottenere sempre il meglio possibile non è più sport. Si deve giocare per vincere, e faccio questo ragionamento anche nel calcio: chi gioca per pareggiare o difendersi non mi piace molto. L’Inter mi piace anche per la sua imprevedibilità: può vincere partite che sembrano perse o perdere partite che per qualsiasi altra squadra sarebbero vinte. A volte sembra che dimentichino come si gioca a calcio, com’è successo a me nel campionato italiano quando, a un certo punto, mi sembrava di non saper più tirare con l’arco (ride, ndr)”.

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Marco Corradi
31 anni, un tesserino da pubblicista e una laurea specialistica in Lettere Moderne. Il calcio è la mia malattia, gli altri sport una passione che ho deciso di coltivare diventando uno degli Azzurri di Gloria. Collaboro con AlaNews e l'Interista

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