L’atleta bolzanina ha chiuso al quinto posto il programma libero individuale di pattinaggio di figura. Ecco le sue parole raccolte dal nostro inviato a PyeongChang.
PYEONGCHANG 2018: LA “RIVINCITA” DI CAROLINA KOSTNER
Carolina, oggi si è chiusa un’era?
“Non credo, perché dovrebbe? Abbiamo ancora il Mondiale in Italia e raccoglierò tutte le mie energie in vista di quell’evento. Adesso mi riposo un po’ e poi mi rimetto al lavoro per un’altra bellissima esperienza a Milano. Comunque certe decisioni non si prendono a caldo. Ci dovrò riflettere”.
Hai trovato in questa Olimpiade quello che cercavi quando hai deciso di continuare a pattinare?
Assolutamente sì. Per me questa Olimpiade è stata proprio una metafora dello sport e della vita. Il punto non è trovare la perfezione ed essere perfetti, ma scoprire i propri limiti, imparare a rialzarsi quando si cade, trovare la forza per superare gli ostacoli che si presentano tutti giorni. Questo è lo sport, questa è la vita. Due anni fa sono partita da zero e non sapevo se il mio corpo mi avrebbe supportato in tutto questo, non sapevo se sarei riuscita a qualificarmi ai Giochi. Rispetto a quattro anni fa, credo di essere migliorata sotto l’aspetto tecnico, artistico e mentale. Ho trovato un equilibrio speciale che mi ha aiutato a vivere questa Olimpiade con serenità. Spero che la mia storia possa essere un esempio di speranza per tutti”.
A Torino 2006, tu e Arianna Fontana eravate delle “bambine”: che effetto ti fa ripensarci dopo questi Giochi?
Ogni esperienza è unica: per me questi Giochi lo sono stati. Penso che la crescita di una persona non sia misurabile coi risultati delle gare, che sono soltanto il risultato di quattro minuti di esibizione. C’è un contesto molto più ampio da prendere in considerazione. Io posso solo parlare per me e congratularmi con Arianna. Abbiamo saputo portare in alto il nome del nostro Paese: lo abbiamo fatto con onore e con grande gioia.
Il primo giorno avevi detto “Non sono Wonder Woman”, poi però ti sei messa un adesivo con questa scritta sotto un pattino…
Quando mi alleno con la mia coreografa, Nori Nichols, se faccio veramente bene allora lei mi regala degli stick come premio… Infatti sull’altro pattino c’è scritto “Super Girl”…
Come hai trascorso il periodo di avvicinamento a questa Olimpiade?
Ho imparato a vivere l’allenamento con serenità, ad affrontare nel verso giusto anche le giornate in cui qualcosa non va. Serve esperienza ed è fondamentale avere un team affiatato che ti rispetta come persona e come atleta, che conosce la tua storia, che ti aiuta ad affrontare i tuoi limiti. Con gli anni trovi le strategie giuste per sorridere anche nei momenti difficili. Cambiare qualcosa mi ha aiutato: ho lasciato San Pietroburgo e sono tornata ad allenarmi in Baviera. Vivere la “mia” Oberstdorf, poter tornare più spesso in Italia e lavorare con team fatto di leggende del pattinaggio è stato fondamentale: tutto questo è stato già una vittoria per me. Loro mia hanno supportato con tantissimo affetto e tantissima forza. Sono felice di aver potuto lavorare con delle persone così in gamba. Tutti quanti, assieme, siamo un team molto forte, forse inusuale, ma favoloso.
Come ti immagini tra qualche anno?
Spero di riuscire a trasmettere l’esperienza che sto facendo e che ho fatto in tutti questi anni. Troverò col tempo la mia strada dopo il ritiro. Quando mia cugina Isolde decise di ritirarsi, mi disse: «Carolina, lo sentirai anche tu quando sarà il momento di farlo!». Io non l’ho ancora sentito, quindi vado avanti. Ognuno ha la sua storia, ognuno prende le sue decisioni e non si possono paragonare. Se ho voglia di farmi una famiglia? Mi sono concentrata talmente tanto su questo progetto che non ci ho pensato. Credo che queste cose siano difficili da pianificare.
Che cosa significa la vittoria della quindicenne russa Alina?
Non è una novità nle pattinaggio artistico: è successo già a Nagano 1998 e a Salt Lake City 2002. Complimentissimi a tutte le ragazze: siamo un gruppo di matte, ma sono orgogliosa di farne parte e di condividere con loro queste esperienze. È una cosa favolosa.
Dove eri tu a 15 anni e mezzo?
Mi trovavo a Oberstdorf e avevo partecipato al mio primo Europeo: tecnicamente ero fortissima, ma lì la componente artistica contava molto e io gareggiavo con grandissime atlete. Eseguivo la tecnica in modo perfetto, ma artisticamente non riuscivo ancora a esprimere certe emozioni. Nel mio percorso successivo non ho scoperto soltanto la parte artistica, ma anche la bellezza dell’allenamento. Ho imparato a capire il mio corpo e me stessa: è una metafora della vita. Saperlo fare è una cosa meravigliosa.
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