Il 4 novembre si celebra la fine della Prima guerra mondiale. L’inutile strage uccise milioni di persone e annientò una generazione di giovani. La guerra non risparmiò nessuno: civili e militari. Pure gli atleti furono arruolati. Oltre 400 di loro non tornarono a casa.

Il 4 novembre: l’armistizio

Il 5 novembre del 1918 il quotidiano torinese La Stampa aprì la sua edizione del mattino con un titolo che fece tirare un sospiro di sollievo a milioni di persone: “La firma del trattato d’armistizio”. Un momento atteso in Italia da quando, nella tarda primavera del 1915, erano iniziati ad arrivare i primi resoconti dei protagonisti dalle trincee: la guerra non aveva il sapore eroico e cavalleresco come avevano sostenuto molti interventisti, ma si trattava di una straziante lotta, perennemente appesi tra la vita e la morte. Quest’ultima poteva arrivare per mano di una scarica di mitragliatrice, per la baionetta di un nemico, ma anche per via del freddo e delle malattie che i soldati, la stragrande maggioranza dei quali giovanissimi, contraevano nel freddo delle montagne.

Il sottotitolo del giornale di quel giorno aggiunse un ulteriore dettaglio: “Le ostilità sono state sospese ieri alle ore 15 su tutti i fronti austriaci”. Il 4 novembre, insomma per l’Italia la guerra finì ufficialmente, anche se le operazioni militari sarebbero andate avanti nei giorni successivi con l’esercito che avrebbe raggiunto Bolzano e Pola, mentre la fine della Grande guerra sarebbe stata decretata solamente l’11 con la resa definitiva della Germania. Dal 1919 sarebbe poi stata istituita la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate che da allora avrebbe visto la sua celebrazione organizzata il 4 novembre di ogni anno. Una celebrazione che rende omaggio ai caduti di quella terribile guerra: uno scontro che costò la vita a circa 17 milioni di persone, di queste oltre un milione furono i caduti italiani. Tra di loro si contano civili e militari e furono soprattutto i giovani a ingrossare le fila dell’esercito, tra questi vi erano, per esempio, i ragazzi del ’99, chiamati in guerra a 18 anni appena compiuti nel 1917. Tra giovani che andarono a sfidare i proiettili e il freddo ci furono anche alcuni dei migliori atleti italiani del tempo.

Il 4 novembre e gli sportivi: gli Azzurri che sono tornati dalla guerra

Come detto, anche gli atleti non sono stati risparmiati dal servizio militare. Anzi, come spiega Sergio Giuntini nella sua introduzione al volume La migliore gioventù scritto da Dario Ricci e Daniele Nardi, il mondo dello sport italiano eta stato interventista fin dal primo momento.

Vittorio Pozzo: l’origine del mito dell’allenatore alpino

Tra i giovani inviati al fronte ci fu Vittorio Pozzo, classe 1886, che al tempo del conflitto aveva trent’anni e che, quando l’Italia decise in un primo momento di rimanere neutrale, dichiarò: “Per intanto eravamo lieti che l’Italia, Paese saggio, se ne stesse in disparte, lontano da quella gran gazzarra”*. In quel momento, infatti, Pozzo si trovava in Brasile con il Torino che allena dopo aver guidato, seppur giovanissimo, la Nazionale di calcio alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Pozzo era stato “fatto rivedibile” e messo in congendo per problemi fisici nel 1907, ma allo scoppio della guerra venne chiamato a prendere parte ai combattimenti. Una volta rientrato dalla tournée sudamericana, Pozzo fu richiamato dall’esercito, combattendo come alpino sul Grappa, sul Monte Nero e in altre delle zone più impervie del fronte. La sua fama di allenatore-alpino lo avrebbe accompagnato per il resto della sua, brillante, carriera, dando un tocco romanzesco alla vita del tecnico capace di vincere due mondiali e le Olimpiadi di Berlino del 1936. La leggenda vuole infatti che, per incoraggiare i suoi uomini, Pozzo fosse solito cantare le canzoni degli alpini prima delle partite più importanti, ma questa, appunto resta solo una leggenda. Vero, invece, è il peso che Pozzo si è portato dietro per anni, per aver visto cadere in battaglia tanti di quei “suoi” ragazzi che aveva guidato dalla panchina nei primi anni della sua carriera.

Fernando Altimani: il marciatore che non tornò più a correre

Un altro sportivo che si portò dietro una grande ferita, non solo nell’anima, fu Fernando Altimani. Nato a Milano l’8 dicembre del 1893, Altimani si fece subito notare per la sua grande resistenza che lo portò a partecipare ai Giochi in programma a Stoccolma nel 1912. Il giovane talento lombardo, nonostante non partisse coi favori dei pronostici, riuscì a conquistare la medaglia di bronzo nella marcia, la prima medaglia della storia azzurra in questa disciplina. Un risultato sorprendete che, però, non potè ripetere in futuro. Altimani venne infatti arruolato nel 1° Reggimento Granatieri e spedito al fronte dove rimase gravemente ferito alla gamba destra. Un lascito, quello della guerra, che il marciatore si porterà dietro alle Olimpiadi di Anversa del 1920: nonostante gli sforzi, infatti, l’atleta azzurro dovrà dire addio alle sue speranze non solo di poter dire la propria nella gara belga, ma persino di potervi partecipare, chiudendo di fatto la sua carriera nell’atletica leggera.

Nedo Nadi: la guerra e l’abbraccio al nemico

Fonte Foto: www.corriere.it

Andare in guerra è una questione di vita o di morte, questo è chiaro: spesso però dalle nostre scelte dipendono anche le vite degli altri, in maniera particolare quando si ricoprono ruoli di comando. Come nel caso di Nedo Nadi, schermidore di successo (campione olimpico nel 1912, avrebbe fatto incetta di ori ad Anversa e sarebbe stato alla guida della Nazionale a Berlino 1936) e sottotenente rispettato. Il livornese, infatti, fu capace di ridurre al minimo le perdite tra i suoi uomini. Questo curriculum di tutto rispetto non fu sufficiente a evitargli un rapporto urgente da alcuni ufficiali, dal quale però uscì senza conseguenze, per un saluto ad un nemico. Una volta giunto a Ora, un piccolo paesino a metà tra Trento e Bolzano, Nadi si sentì chiamare dal soldato austriaco che capitanava l’avamposto imperiale: si trattava di uno schermidore, incontrato in una gara disputata in Francia. Riconosciutolo, Nadi lo abbracciò come si fa con gli avversari dopo una gara. Ma la guerra non è fatta per questo genere di persone, nelle quali lascia una cicatrice indelebile. Lo stesso Nadi avrebbe intrapreso un viaggio a ritroso nel tempo alcuni anni dopo, vistando i luoghi di quella che sarebbe stata chiamata “l’inutile strage” insieme alla moglie, che scriverà: “Nel pellegrinaggio durato quasi un mese […] pareva ai nostri occhi, estraniato alla nostra presenza… lontano […] vicino ai compagni caduti… agonizzanti… imploranti…”*.

De Vecchi, Bontadini e Braglia: tre storie, tra sopravvissuti

Ad andare al fronte furono anche due calciatori, Renzo De Vecchi e Franco Bontadini i quali presero parte alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912, convocati da Pozzo. Entrambi milanesi, i due ebbero carriere sportive completamente diverse con De Vecchi che giocò ben 43 partite in Nazionale (record per l’epoca), mentre Bontadini ebbe una carriera più breve e giocò in con gli Azzurri solamente le partite dei Giochi, pur venendo notato per il suo talento. Laureato in medicina, Bontadini non dichiarò di aver conseguito il titolo per poter prendere parte ai combattimenti con i suoi compagni, ma venne scoperto e arruolato come sottotenente medico.

Ad avere la fortuna di tornare dal fronte fu anche Alberto Braglia, tre volte oro olimpico nella ginnastica artistica, prima a Londra 1908 e poi in Svezia, il modenese fu arruolato come fante. Le storie di guerra, però, non sono tutte a lieto fine e per un gruppo di atleti ai quali toccò la buona sorte di tornare a casa (e addirittura, per alcuni, a vincere), ve ne furono alcuni che invece dal fronte non tornarono mai.

Il 4 novembre e gli sportivi: gli Azzurri morti al fronte

Un grande ginnasta tornò dal fronte, un altro grande ginnasta vi perì. Guido Romano aveva partecipato alle Olimpiadi di Londra del 1908, ma non era riuscito a vincere nessuna medaglia. Anch’egli modenese come Braglia, Romano non si diede per vinto e si riprensentò nella capitale svedese, convinto di poter ottenere l’alloro olimpico che gli era sfuggito solamente quattro anni prima. E così fu: a Stoccolma, infatti, la Nazionale italiana fu capace di sconfiggere l’agguerrita concorrenza di Ungheria e Gran Bretagna e conquistare la medaglia d’oro nel concorso a squadre. La vita di Romano, però, si concluse prematuramente il 18 giugno 1916, sull’Altopiano dei Sette Comuni, in provincia di Vicenza, falciato da una mitragliatrice. Ad appena 29 anni.

Giuseppe Caimi, l’olimpionico mancato

Stessa sorte toccò a Giuseppe Caimi, calciatore facente parte del giro della squadra guidata da Pozzo. Questi, colpito dalle sue doti, lo aveva inserito nella lista dei convocati per Stoccolma, salvo poi cancellarne il nome all’ultimo per alcuni comportamenti fuori dal campo poco consoni a un atleta. Lui e Pozzo arrivarono ai ferri corti, salvo poi riappacificarsi durante il conflitto, durante il quale Caimi fece collezione di medaglie al valore, ma non riuscì a tornare nella sua Milano: morì infatti il 26 dicembre 1917 a seguito delle ferite riportate durante i combattimenti nel freddo dell’inverno sul monte Grappa. Pozzo non lo avrebbe mai dimenticato: “Io non posso pensare alle Olimpiadi di Stoccolma senza che la sua assenza mi torni presente”*.

Perché la guerra, l’inutile strage, ferisce a morte sia chi cade, sia chi torna.

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*testi tratti dal libro La migliore gioventù.

Federico Sanzovo
Neolaureato e aspirante giornalista, scrivo su carta dal 2008. Sono tra i fondatori di Azzurri di Gloria. Mi occupo di blogging, web writing e social media managing. Amo il web, ma il profumo della carta stampata...

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