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Elisa Longo Borghini (bettiniphoto, fonte cyclingnews.com)

Alti e bassi. Su e giù. Un po’ come i percorsi olimpici allestiti a Rio 2016 per i ciclisti. Saliscendi carichi di speranza, adrenalina, pericoli, paure. E in fondo anche l’avventura azzurra su due ruote in terra brasiliana ha ricalcato questa alternanza di emozioni e risultati a dir poco imprevedibile. Tutto e il contrario di tutto, senza soluzione di continuità.

A volte un risultato positivo o negativo può essere deciso da un particolare. Una curva a gomito, in discesa, apparentemente poco pericolosa può celare un’insidia inaspettata. Una pietra più appuntita delle altre, calcata con più veemenza rispetto al giro precedente. Bastano dettagli apparentemente di poco conto per fare la differenza, per determinare l’esito di una corsa. Vincenzo Nibali, Marco Aurelio Fontana ed Andrea Tiberi si ricorderanno molto bene di questa lezione, mai sufficientemente appresa e spesso riproposta con un conto resto irrimediabilmente salato da una buona dose di sfortuna. I tre azzurri hanno condotto le prove in linea rispettivamente su strada e su sterrato. In entrambi i casi, la nazionale italiana si è resa protagonista disputando una gara tatticamente perfetta, ma raccogliendo solamente grandi beffe finali.

Lo scivolone di Nibali, in discesa, solitamente terreno di caccia dello Squalo di Messina, quando mancavano 11 km alla conclusione, è stata una triste apertura per i “nostri” Giochi Olimpici. È stato duro da accettare perché la squadra di Davide Cassani aveva interpretato perfettamente la corsa, tagliando fuori all’inizio dell’ultimo giro le selezioni più pericolose, e mettendo il vincitore del Giro d’Italia 2016 di conquistare la medaglia d’oro. E forse ce l’avrebbe fatta perché Henao non sembrava così pericoloso nello sprint e perché Majka non aveva le gambe per lanciare uno sprint efficace. Non ci sarà mai la controprova. Il posto sul podio, però, era davvero a portata. Il sesto posto finale di Fabio Aru non rende giustizia alla bella prova dei ragazzi di Cassani.

Anche Fontana e Tiberi si erano resi protagonisti di un buon avvio nella gara di mountain bike. In particolare il biker di Giussano sembrava il più in forma della compagnia azzurra. Si è mantenuto nelle prime posizioni per buona parte della corsa, dettando un ottimo ritmo, che lasciava ben sperare. Poi la foratura a causa di una pietra. Un colpo di sfortuna che passa come una spugna sulle speranze di ripetere il podio di Londra 2012. Tiberi ha adottato una tattica più accorta, difendendosi inizialmente per poi rimontare nel finale. Un problema analogo a quello del connazionale, bronzo alle ultime Olimpiadi, ha impedito all’ex campione d’Italia di farsi vedere nelle prime posizioni. Unica consolazione il settimo posto di Luca Braidot, giovane speranza azzurra nelle prossime manifestazioni.

A proposito di giovani speranze, uno dei volti nuovi di questa manifestazione è Elisa Longo Borghini. Classe 1991, due volte campionessa nazionale a cronometro, ha un’ottima tenuta sia in salita che in pianura. Caratteristiche emerse nettamente nel corso della gara olimpica. Con grande freddezza e lucidità, l’azzurra ha gestito le forze, calcolando bene quando accelerare e quando dosare le energie. Sull’ultima ascesa, ha preferito non inseguire l’americana Abbott, rientrando insieme all’olandese Anna Van der Breggen e alla svedese Emma Johansson. Inseguimento riuscito e coronato dalla conquista di quella agognata medaglia. Questa completezza in ogni situazione, unita ad una grande lettura della gara, rende questa ragazza molto interessante per il futuro. Il bronzo di Rio deve essere solamente un trampolino di lancio.

Poco fortunate Simona Frapporti, Beatrice Bartelloni, Francesca Pattaro, Silvia Valsecchi e Tatiana Guderzo, settime nell’inseguimento a squadre, ed Eva Lechner, nella gara di mountain bike femminile. Encomiabile la tenacia di Damiano Caruso, schierato nella cronometro dopo le fatiche della prova in linea, al posto dell’infortunato Adriano Malori, anche lui bersagliato dalla iella e finito KO dopo una brutta caduta in Argentina a gennaio.

Abbiamo parlato di malasorte. Eppure, a volte, la vita sembra cerchi di offrire una seconda chance, una nuova opportunità. Ad Elia Viviani è successo. Il ciclista ventisettenne del team Sky ha deciso di puntare ancora sulla pista, per prendersi una rivincita dopo la delusione di Londra 2012. Quattro anni fa, l’azzurro si presentò al primo posto nella classifica dell’omnium ad una sola prova dalla conclusione. La gara a punti fu fatale per le sue speranze di vittoria finale ed il pistard si dovette accontentare di un modesto sesto posto. La storia si è ripetuta anche a Rio. Elia ha disputato 5 prove perfette, arrivando all’ultimo impegno in testa alla classifica. Verso metà gara, un contatto tra il britannico Cavendish ed il coreano Park ha innescato una brutta caduta in cui l’azzurro è rimasto coinvolto. Molti si sarebbero rassegnati ad un destino che li voleva perdenti e sfortunati. Viviani non l’ha pensata così. È tornato in corsa, un giro dopo l’altro, ha gestito le proprie emozioni e si è preso i punti fondamentali per la vittoria finale. Gli ultimi giri sono stati una passerella, un piacevole countdown per Elia, un campione troppo sottovalutato, ma dal cuore grande.

In generale, la spedizione azzurra in terra brasiliana è stata positiva. Due medaglie possono essere considerate un buon bottino. Resta la sensazione di non essere riusciti a sfruttare appieno tutto il potenziale tra i tanti imprevisti. Tuttavia, questi risultati devono rappresentare uno stimolo per Tokyo 2020. Tra quattro anni, con nomi nuovi e maggior fortuna, si può sognare un’Olimpiade da protagonisti assoluti.

Federico Mariani
Nato a Cremona il 31 maggio 1992, laureato in Lettere Moderne, presso l'Università di Pavia. Tra le mie passioni, ci sono sport e scrittura. Seguo in particolare ciclismo e pallavolo.

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