Alle ultime Olimpiadi, la boxe italiana ha vissuto uno dei momenti peggiori della sua storia: da oggi, e ogni venerdì, analizzeremo la scena pugilistica italiana con l’occhio critico di chi l’ha praticata. Ecco il pezzo introduttivo della nostra rubrica.
PUGILATO: LA NOBILE ARTE VISTA DA UN PRATICANTE
Ad oggi la scena pugilistica (professionistica) italiana risulta quasi del tutto inesistente. Il pugilato è uno sport assolutamente divergente rispetto agli altri sport, compresi quelli da combattimento; tanto per rendere chiaro il concetto, un aforisma pronunciato nel famoso film Million dollar baby, di Clint Eastwood, recita: “La boxe è qualcosa d’innaturale, perché si fa sempre tutto al contrario. Quando vuoi spostarti a sinistra, non fai un passo a sinistra, ma spingi sull’alluce destro. Per spostarti a destra, usi l’alluce sinistro. Invece di allontanarti dal dolore, come farebbe qualunque persona sana, gli vai incontro. Tutto nella boxe funziona al contrario.”. Chiamarlo “sport” è qualcosa di riduttivo; non per altro, c’è chi ancora lo definisce “la nobile arte”.
Storicamente – valutando le singole storie dei più grandi atleti che hanno dominato quel meraviglioso quadrato sei per sei, cinto dalle quattro corde –, ci si rende conto che questi uomini (e, da diversi anni, anche donne) hanno spesso un punto in comune: una storia di vita, d’infanzia, decisamente burrascosa, fatta di violenza, povertà, di segregazione razziale; e ciò è importante, poiché, più che altre discipline, la boxe si innalza ad essere via di redenzione. Al di là delle singole storie e di ciò che essenzialmente deve possedere il singolo pugile (talento e attitudine), determinante è la “macchina” che sta dietro all’atleta, che gli permette di pensare solo ad allenarsi, che bada alla sua salute mentale e fisica, che lo aiuta a mostrare, in tutta la sua magnificenza, quella magia tremenda di chi sceglie di vivere per combattere, di chi sceglie di combattere per vivere. È chiaro che in ogni tipo di sport professionistico è richiesto un certo livello di serietà, e tale si traduce in un attitudine ferrea che si completa in una vita sana, fatta di ore ed ore di allenamenti, in una dieta equilibrata e via dicendo. In altri sport la componente del talento risulta essere la parte più importante e determinante: se pensassimo a certi campioni come Maradona nel calcio o Jordan nel basket – solo per citarne due –, ci renderemmo conto che, seppur fosse centrale una preparazione fisica e mentale appropriata, l’apporto dato ai loro rispettivi sport è frutto soprattutto di un talento smisurato, e, solo in un secondo tempo, di un’attitudine al lavoro e alla disciplina. Tutto per dire che nella boxe succede esattamente il contrario: è impensabile salire su un ring senza una preparazione, mentale e fisica, ferrea, portata ai massimi livelli possibili, al di là della misura del talento posseduto. In sostanza, ci troviamo in presenza di uno sport che, più di altri, necessita di disciplina, di un conglomerato di persone che lavorino insieme allo scopo di formare, preservare e proteggere un solo atleta, dal quale dipenderà, per tutti, la vittoria o la sconfitta.
I CAMPIONI DEL PASSATO E LA SITUAZIONE ATTUALE: UNA BREVE PANORAMICA SUL PUGILATO ITALIANO
In Italia ciò evidentemente non è stato ancora recepito: ci troviamo in presenza di pugili dotati di uno smisurato talento (Roberto Cammarelle e Clemente Russo, solo per citarne due) che, tuttavia, si trovano a scegliere un’attività – seppur oggi professionale – che rimane dilettantistica. Personalmente, per diletto, ho sempre avuto a che fare con palestre lombarde di pugilato più o meno famose, ed, in ognuna di queste, ho avuto la fortuna di conoscere ragazzi che, se fossero stati adeguatamente seguiti, avrebbero potuto dare molto, più sul piano professionistico che dilettantistico. Il problema rimaneva e rimane sempre lo stesso: mangiare, vivere, mantenersi per poi allenarsi a fine giornata – dopo turni di otto ore –, in palestre poco attrezzate, da persone spesso legate a metodi di allenamento indecenti e retrogradi (un maestro storico del pugilato italiano sosteneva che, quando doveva procedere con il taglio del peso, faceva tenere un nocciolo di ciliegia per tutto il giorno, per svariati giorni, in bocca al suo atleta, con lo scopo di favorire una sovrapproduzione di saliva e disincentivare l’assunzione di liquidi).
Nell’arco di tutto il Novecento si sono avvicendati sui ring americani campioni di ogni provenienza. Esclusi quelli di origine africana, tra i nomi più altisonanti, ne troviamo moltissimi di origine italiana: Nicolino Locche, argentino con chiare origini italiane, considerato da molti il più grande welter di tutti i tempi, con un ruolino impressionante di 136 match, di cui 117 vinti, 14 pareggiati e solo 4 persi; Rocco Francesco Marchegiano, in arte “Rocky Marciano”, figlio di immigrati beneventani, unico peso massimo della storia ritiratosi imbattuto dopo 49 match, di cui 43 vinti per k.o.; Arturo Gatti, tre volte campione del mondo, protagonista di una serie di battaglie epiche. Questi tre sono solo una piccola parte dell’impressionante mole di pugili di origine italiana che hanno dipinto e reso grande la storia di uno sport così antico e sincero. Di pugili invece italiani, che non si sono dovuti spostare nel nuovo continente e che hanno raggiunto il livello di quelli nominati (per alcuni non si sono neanche avvicinati ai tre appena citati), se ne ricordano pochissimi: Nino Benvenuti – letteralmente distrutto da uno dei più grandi pesi medi di sempre, Carlos Monzon (87 match vinti, di cui 57 per k.o., e solo 3 persi) – e Primo Carnera, famoso per la sua impressionante mole, ma non considerato neanche fra i primi cinquanta pesi massimi della storia. Negli anni è poi vero che abbiamo avuto altri ottimi pugili che hanno innalzato il nome dell’Italia nel mondo della boxe; per citarne due: Giovanni “Flash” Parisi e Giacobbe Fragomeni; ma, pur riconoscendone il grande merito, il bel talento, non sono paragonabili ai grandi nomi sopra citati.
Per concludere, ci troviamo oggi ad osservare una situazione alquanto triste, dove grandi talenti come Domenico Valentino, Vincenzo Picardi, Roberto Cammarelle (Oro olimpico a Pechino 2008 ed Argento olimpico nel 2012) o Clemente Russo (Argento olimpico nel 2008 e 2012, e – nel dilettantismo – campione del mondo 2007 e 2013) si trovano a dover scegliere di rimanere in quel limbo – che dovrebbe essere solo un passaggio obbligato per il futuro approdo alla boxe che conta –, fatto di match da tre riprese, sotto una divisa di Stato che garantisca loro una vita dignitosa. Se così non fosse, si ritroverebbero soli, circondati da un sistema che non li sorregge, obbligati quasi sempre a compiere sacrifici disumani, magari con doppio lavoro; perché, seppur vi sia un imperituro interesse, vale più la pena pagare milioni di euro ogni anno per offrire pacchetti che comprendono Serie A, Serie B, Europa League, Champions League, Bundesliga o Premier League, anziché investire in quest’arte, redenzione di molti uomini che così tanto hanno insegnato al resto del mondo.
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