Sono anni che la boxe italiana professionistica si trova immersa in una profonda crisi. Ho incontrato Andrea Cimichella, pugile pavese di grande talento, campione italiano juniores, più volte campione regionale di Lombardia, che ci ha raccontato delle grandi fatiche e del suo profondo amore per la nobile arte.
PAVIA, UNA MAGNIFICA CITTÀ PIENA DI CONTRADDIZIONI
Pavia è una città piccola, per certi aspetti ancora soggetta a dinamiche più di paese che di città. Vive spesso di contraddizioni, mostrandosi chiusa per certi aspetti, a tratti ignorante (come chi ancora ad esempio fa “selezione all’ingresso” magari per l’affitto di un appartamento, tra chi proviene dal sud Italia e chi proviene dal nord Italia), a tratti magnifica, come quando scopri che l’università di Pavia è la seconda, per antichità, del mondo occidentale (la prima è Bologna). Una cosa simile accade anche per il pugilato. Tanto per rendere l’idea, l’Associazione Pugilistica Pavia, è annoverata tra le prime palestre d’Italia ad aver importato nel bel Paese la nobile arte, svolgendo il suo lavoro da più di 65 anni. Ciò fu reso possibile dal fervore di alcuni uomini, come il maestro Lucinio Sconfietti che fonda – per l’appunto – la Associazione pugilistica Pavia (precedentemente si chiamava Accademia pugilistica Pavia) nel 1952. È considerato uno dei più grandi maestri d’Italia, non per altro fu uno degli allenatori più prolifici forgiando campioni del calibro di Giordano Campari, Annibale Omodei, Giovanni Biancardi, Vincenzo Belcastro. Nel 2000 abbracciò il progetto iniziato, e tutt’ora portato avanti, dal maestro Fabio Paragnani, con l’apertura della BSA Boxing Team in Borgo Ticino, continuando ad inanellare (questa volta più come supervisore che come allenatore) meravigliosi successi nella boxe dilettantistica.
ANDREA CIMICHELLA COME UNA DELLE PIÙ RAPPRESENTATIVE PROMESSE DELLA BOXE PAVESE, LOMBARDA E ITALIANA
Ho deciso quindi di incontrare uno delle maggiori promesse dell’epoca (si parla degli inizi degli anni 2000), Andrea Cimichella. Ragazzo classe 1986, come da lui stesso dichiarato, approcciò alla boxe intorno ai 17 anni, avvicinandosi proprio a questa palestra, affidandosi alle cure del maestro Fabio Paragnani e del mitico Lucinio Sconfietti. Il suo avvicinarsi fu frutto di una dinamica che spesso accompagna la storia di molti ragazzi: “Volevo boxare sin da piccolo: avevo 6 o 7 anni, per motivi molto banali (ndr: forse non troppo), ero bullizzato a scuola, e volevo acquisire sicurezza”. La sua carriera dilettantistica fin dai primi momenti (testuali parole: “Dopo circa 4 mesi che avevo iniziato pugilato, il Maestro Paragnani mi fece debuttare con il primo match”) fu impressionante, vincendo, alla sua prima partecipazione il campionato italiano juniores del 2004 nella categoria dei -75kg. Dopo qualche mese, visto il grandioso raggiungimento, ebbe diritto ad andare ad Assisi ad allenarsi con la Nazionale italiana di pugilato, e così fu: “Fu un mese molto bello e intenso di preparazione, tanto intenso che mi lesionai il ginocchio, e dovetti fare 4 mesi di fisioterapia solo per riniziare a camminare. Non fraintendermi, non dico che questo infortunio fu frutto delle dinamiche di allenamento della Nazionale, piuttosto non essendo abituato a certi carichi di allenamento (4 ore al mattino e 4 al pomeriggio), ed essendo l’ultimo arrivato, ero costretto a dover spingere al massimo, soprattutto poi nelle sessioni di sparring: sai c’è tanta competizione, la gente lotta per il proprio posto, e non è una critica la mia, ma è la verità. Successe che sarei dovuto partire per gli USA proprio con la nazionale, ma visto l’infortunio patito un mese prima della partenza, mi vidi costretto a scegliere di curare il ginocchio, e scelsi di farlo in autonomia. Dopo ciò, come è giusto che sia (ndr: testuali parole, di un ragazzo molto umile che ci ha tenuto fin dall’inizio a specificare quanto sia stata positiva l’esperienza e come sia stata del tutto indipendente la decisione di curarsi in autonomia) la nazionale mi chiuse le porte e non fui più convocato”. Gli proposero di curarsi direttamente con loro, ma ciò sarebbe stato subordinato all’imminente partenza, e non essendo un fisiatra o un ortopedico – lungi dal compiere giudizi perentori -, seguendo la logica, non vedo come fosse possibile recuperare un ginocchio e dei legamenti lesionati quando per far ciò, in autonomia, vi sono voluti più di quattro mesi di fisioterapia, più volte la settimana, solo per ricominciare a deambulare.
Ritornato dall’infortunio era ancora molto giovane, siamo tra il 2006 e il 2007, e continuò a mietere vittorie su vittorie tanto che ad oggi su di un totale di circa 100 match le vittorie ammontano a più di due terzi. Durante gli anni Andrea vinse più volte i campionati regionali assoluti nella categoria dei medi (al di sotto dei 75kg) incontrando e battendo, tutto il panorama italiano, ai massimi livelli, dei pesi medi. “Agli ultimi assoluti – spiega Andrea – mi trovai ad avere tutto da perdere e (quasi) nulla da guadagnare; insomma io ero la certezza, bene o male mi conoscevano tutti, e ritornare per la quarta o quinta volta ad affrontare questi campionati era diventato quasi insopportabile. C’è da tener presente che avevo già 27 anni ed ero un veterano del ring, e ritrovarmi a dover competere con ragazzi, magari anche forti e grandi promesse, ma con alle spalle non più di un quinto della mia esperienza faceva la differenza, anche perché nel momento in cui vai a battere questi ragazzi (sul ring fa un’enorme differenza l’esperienza dettata dal numero di match compiuti) rischi di andargli a rovinare un eventuale futuro nel pugilato, anche rispetto possibili future chiamate dalle nazionali (ndr: di certo non è da biasimare, visto come si erano comportati qualche anno prima con lui), per cui fu alla fine di quei campionati che iniziai a progettare un passaggio nella boxe che conta, quella dei professionisti”.
TANTA SPERANZA PER L’INIZIO DI UNA NUOVA AVVENTURA, IL PASSAGGIO AL PROFESSIONISMO
Siamo quindi fra il 2014 e il 2015, e il caso volle che fu creata, dalla FPI (Federazione Pugilistica Italiana) una sorta di categoria/sigla (si trattava esattamente di una Lega) chiamata Neo Pro. Consisteva in una lega di ragazzi e ragazze maggiorenni che combattevano sulla distanza massima delle 6 riprese, e presupponeva la firma di un contratto nel quale il pugile si impegnava a sostenere tre match nella categoria prefissata al momento della firma (Andrea in accordo con il maestro Paragnani optò per i pesi medi che nei professionisti non si attestano al limite dei 75 kg, bensì al limite delle 160 libbre, che corrispondono esattamente al limite dei 72,57 kg), con il limite massimo di un match al mese (sull’importanza di questo concetto vi tornerò a breve). Per intenderci: nei dilettanti oltre al caschetto (da qualche anno nella categoria elite è stato tolto per i match ufficiali, sarà un caso che da allora anche nel dilettantismo si stanno registrando un aumento cospicuo di gravi infortuni, che per alcuni, anche se pochi, si sono rivelati addirittura fatali), si utilizzano guanti con all’interno un particolare gel antishock in grado di ammortizzare gli urti scaturiti dai colpi lanciati; nei professionisti invece, come ben noto, non si utilizza caschetto, gli arbitri utilizzano un metro meno stringente (nei dilettanti quando un colpo entra tanto pulito e forte da far anche solo “ciondolare” il malcapitato, ancor prima che il pugile subisca abbastanza da cadere a terra, l’arbitro interrompe e avvia il conteggio, proprio come fosse un Knock-down), i guanti sono da 10 oz (once), non hanno alcun gel protettivo, e la mano ha una fasciatura ben diversa da quelle previste per match dilettanti: Andrea definisce la fasciatura come una vera e propria “stuccatura della mano”.
“I colpi, le dinamiche, erano ben diverse: si faceva sul serio, si combatteva davvero, e quando si combatte così, devi essere al meglio, devi avere la mente lucida, il fisico al top, perché quei colpi fanno male, perché poi li senti per giorni e giorni. Quando l’adrenalina scende, il giorno dopo, non riesci ad alzarti dal letto, ti fa tutto male, non è un gioco (non che il dilettantismo lo fosse), si faceva sul serio”. Purtroppo l’avventura professionistica di Cimichella non è stata altrettanto fortunata (tralasciando, passatemi il termine, l’incresciosa vicenda Nazionale) poiché il suo ruolino si attesta su una vittoria, un pareggio e una sconfitta, ma le dinamiche che lo hanno portato a trovarsi oggi svuotato e vessato da questo ambiente ( seppur animato da un’imperitura passione, assoluto amore, per la nobile arte) vengono svelate da un retroscena: “Dovevo combattere a Roma, il match era il sabato sera, verso le 21. Fabio (il maestro Fabio Paragnani) mi aveva giustamente chiesto di prendermi anche il venerdì da lavoro (ndr: Andrea nel frattempo, durante i mesi di preparazione, e i match, doveva anche lavorare, oltre che sostenere 9-10 sessioni di allenamento a settimana), cosi che avessi potuto fare un allenamento di scarico, per poi partire in tutta calma per sostenere al meglio l’ultimo dei match previsti da contratto. Per tutti e tre i match c’è stata una costante: facevo fatica a mantenere il peso, sono sempre stato in ottima forma, ho sempre mangiato tutto quello che volevo, e mi sono sempre attestato sui 75/76 kg. Vista la scelta fatta in principio, non potendola cambiare in corso d’opera, e avendo sottovalutato, quella che poi si rivelò, l’impresa di scendere ulteriormente dal mio peso forma di 3 kg, mi trovavo molto affaticato. Eravamo ad agosto, io lavoravo per una ditta che faceva impianti di condizionamenti, e in quel caso specifico il mio datore di lavoro non mi diede nè il venerdì e neanche il sabato mattina. Per carità, non è che me lo doveva, alla fine io lavoravo per lui, e come è giusto che sia dovevo rispettare i termini, ma la sfortuna volle che quella mattina dovetti montare una macchina molto pesante su di un tetto, dove ci saranno stati circa 40 gradi. Finito di lavorare alle 12.30, già spossato per la fatica di rientrare nel peso (Fabio mi stette dietro con tutte le sue forze, pagandomi nutrizionisti di alto livello per farmi avere il meglio possibile, e per questo, come per tutto il resto, lo ringrazio), presi il treno, giunsi a Roma e mi prelevò dalla stazione una macchina che mi portò direttamente al luogo in cui si svolgeva la riunione. Mangiai qualcosa, e poco dopo salii sul ring. Ricordo che proprio non ne avevo più, e così fu che persi: meritai di perdere, e tutto ciò non è una scusante (ndr: personalmente ho visionato qualche giorno dopo il video del match e non pochi saranno d’accordo con me che a differenza di ciò che dice Andrea, non aveva così chiaramente meritato di perdere), ma così andò”.
UNA BARCA CHE AFFONDA
Ora, la questione più sconcertante in tutto ciò, è che per contratto, Andrea, percepiva come compenso per match 250 euro. Il limite massimo era di un match al mese, e per match, al di là di una vittoria o sconfitta, al di là del numero di spettatori, degli introiti provenienti dalla pubblicità (seppur non da MGM), il ragazzo, percepiva 250 euro. In molti si sono chiesti come mai campioni del calibro di Clemente Russo, Roberto Cammarelle ecc. non abbiamo fatto la scelta più naturale per chi vive di ring, e vince tutto ciò che può vincere un dillentante, ovvero quella di passare alla boxe che conta, e Andrea Cimichella ne è un triste e chiaro esempio: un ragazzo pieno di talento, con numeri impressionanti, che a livello italiano ha battuto tutti fin da subito, senza chieder nulla, con l’aiuto di un bravo maestro, e con le sue gambe, ma che poi si trova prima con un grave infortunio al ginocchio, scaricato dalla nazionale, e poi su di un tetto a lavorare sotto il sole cocente perché la FPI a match offriva 250 euro (non trattabili), e più di un match al mese non si poteva fare (tanto per intenderci, parliamo di ragazzi che sono pronti a combattere una volta a settimana per poter vivere della loro passione, e che scelgono di provarci quandanche tutto il business intorno sia indecentemente sfruttatore).
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