Basket, NBA 2020. Il piano per la ripresa della stagione, fissata al 31 luglio, è stato approvato due settimane fa. Tuttavia, molti giocatori non sono favorevoli, perché il restart potrebbe costituire una “fonte di distrazione” per le rivendicazioni del movimento Black Lives Matter.

Kyrie Irving, il giocatore che ha promosso la call, in campo prima della sospensione in maglia Brooklyn Nets (fonte: profilo Twitter ufficiale

Basket, NBA 2020: alcuni giocatori contrari al ritorno in campo

La stagione 2019/2020 della NBA, sospesa lo scorso 11 marzo dopo la positività al virus SARS-Cov-2 del centro francese degli Utah Jazz Rudy Gobert, ripartirà il prossimo 31 luglio. La decisione è stata presa due settimane fa, quando ventinove su trenta franchigie hanno approvato il piano del Commissioner Adam Silver, che prevede lo svolgimento della rimanente regular season, in forma ridotta, e dei playoff nella “bolla” dello ESPN Wide World of Sports Complex, sito nel Walt Disney World Resort di Bay Lake, Florida, nei pressi di Orlando. 

Sin da subito molti giocatori, se non la maggior parte, si è detta entusiasta di tornare sul parquet; altri, invece, hanno immediatamente espresso perplessità. Ora, però, il fronte dei contrari si starebbe allargando o, quantomeno, sta diventando sempre più deciso a esprimere la propria contrarietà, spiegando apertamente le proprie ragioni. 

La call di Kyrie Irving e le ragioni di chi dice “no”

Secondo il giornalista di Bleacher Report Howard Beck, la «forza trainante» dietro gli innumerevoli “no” sarebbe Kyrie Irving. La stella dei Brooklyn Nets, nonché vicepresidente della NBPA (l’influente Associazione giocatori della NBA), ha recentemente organizzato una conference call aperta a tutti, cui avrebbero partecipato tra gli 80 e i 100 giocatori. Essi hanno qui espresso le proprie perplessità, che riguardano non tanto il lato sportivo, ma quello sociale. È sì vero che alcuni giocatori si sono sentiti marginalizzati rispetto alle modalità di decisione del restart, in quanto il piano è stato pensato dai vertici della lega e unicamente votato dai presidenti delle trenta franchigie (ovviamente dopo aver sentito rosa e staff); tuttavia, la ragione principale del “no” risiede nella situazione sociale statunitense

«Una volta che torniamo a giocare, le notizie passeranno dal razzismo sistemico a quello che è successo in campo ieri sera». Queste le parole di una «rispettabile giocatore NBA», rimasto anonimo, al reporter di ESPN Adrian Wojnarowski, che riassume alla perfezione la principale preoccupazione dei giocatori contrari. Quella per cui il ritorno sul parquet potrebbe detonizzare la potenza delle manifestazioni, diffuse in tutti gli States, molto partecipate da giocatori ed ex NBA, a seguito della morte di George Floyd

Il giocatore dei Los Angeles Lakers Danny Green (il secondo in ginocchio da sinistra) a una manifestazione angelena del movimento BLM (fonte: profilo ufficiale LA Lakers)

Perplessità permangono anche sul funzionamento della “bolla”, in quanto i giocatori dovranno restare isolati a Disney World per un periodo che va dai quaranta agli ottanta giorni (a seconda che raggiungano o meno le Finals), venendo sottoposti a continui tamponi; tuttavia, i membri degli staff delle squadre saranno liberi di entrare e uscire dalla location di Orlando, senza essere costantemente testati. «Perciò… Non è una bolla» ha scritto J. J. Redick su Twitter, commentando un articolo di NBC Sports che spiegava il protocollo del restart. Al giocatore dei New Orleans Pelicans ha poi risposto anche Joe Ingles degli Utah Jazz, che ha definito quella della Florida «una bolla con diversi buchi».

LeBron tra i favorevoli al ritorno in campo. I giocatori vogliono decidere “come una famiglia”

La principale ragione di contrarietà, al di là del protocollo e delle modalità con cui è stato deciso, è comunque quella sociale. «Il basket, o in generale una forma di intrattenimento, non è una necessità in questo momento, e costituirebbe solo una fonte di distrazione. Di sicuro non per noi giocatori, ma abbiamo delle risorse che la maggioranza della nostra comunità non ha. E la più piccola distrazione potrebbe innescare un effetto a cascata che potrebbe non fermarsi. Specialmente col clima di adesso. Non c’è niente che amerei di più che vincere il mio primo titolo NBA, ma l’unità della Mia Gente sarebbe un trofeo ancora più importante, qualcosa di troppo bello per rinunciarvi».

Queste le parole alla CNN di Dwight Howard. Il centro dei Lakers è tra i giocatori che più si sono esposti, uno dei quelli che ha partecipato alla call di Irving. Tra questi anche Chris Paul, presidente dell’Associazione giocatori; Andre Iguodala, primo vicepresidente della NBPA; Malcolm Brogdon, Garrett Temple e CJ McCollum, tre vicepresidenti dell’Associazione; Carmelo Anthony, che ha proposto di devolvere parte dello stipendio al movimento Black Lives Matter; Donovan Mitchell, che si è detto preoccupato anche per i rischi infortunio; oltre, tra i tanti, a Kevin Durant, Russell Westbrook, Joel Embiid, Rudy Gay e Kyle Lowry. Presenti anche Tiffany Hayes, Kristi Toliver, Renee Montgomery e Natasha Cloud, in rappresentanza della WNBA, la lega femminile.

Non mancano, però, anche i fortemente favorevoli al ritorno in campo. Tra questi, spicca il nome di LeBron James. La stella dei Lakers è da sempre tra gli sportivi professionisti più socialmente attivi. Qualche giorno fa ha lanciato l’associazione no-profit “More Than A Vote”, volta a incoraggiare il diritto di voto e a sottolineare l’importanza delle prossime, imminenti elezioni presidenziali statunitensi; in passato, per citare una delle sue innumerevoli iniziative, aveva aperto la “I Promise School”, un istituito elementare, finanziato dalla LeBron James Family Foundation, volto a garantire un’istruzione alle famiglie più in difficoltà della sua natia Akron, realtà particolarmente difficile dell’Ohio.

“The King” non ha partecipato alla call di Irving, in quanto ritiene che il ritorno alla competizione non infici affatto l’attivismo politico-sociale fuori dal campo, ma che, anzi, la pallacanestro possa essere un’eccellente piattaforma per determinate rivendicazioni.

Ad ogni modo Irving, al termine della call, ha sottolineato come l’iniziativa non sia affatto da intendere come un boicottaggio. Tutt’altro: ha ribadito la necessità e l’importanza di un confronto tra i giocatori. «Se vale il rischio, allora andiamo a Orlando. Ma se non vi sta bene, è ok lo stesso. Abbiamo opzioni in entrambi i casi. Troviamo un terreno comune come una famiglia e procediamo assieme».

Molte le prese di posizione all’interno della NBA per la morte di George Floyd. Qui la vicinanza degli Houston Rockets, con un messaggio di cordoglio apparso al Toyota Center (fonte: profilo Twitter ufficiale Houston Rockets)

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Niki Figus
Giornalista pubblicista. Naufrago del mare che sta tra il dire e il fare. Un libro, punk-rock, wrestling, carta e penna.

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